Far ricrescere parti del corpo, creare arti reali, allungare la stessa esistenza. È il progetto su cui lavora, da anni, lo scienziato americano di origine russa Michael Levin, biologo dello sviluppo alla Tufts University. I suoi esperimenti, finora condotti su amebe, vermicelli e rane continuano a dare risultati. Nel 2016 il co-fondatore della Microsoft Paul Allen gli ha garantito una borsa di 10 milioni di dollari per fondare l’Allen Discovery Center. I colleghi intorno a lui non hanno dubbi: non discutono sul se, ma sul quando e sul come. Perché prima o poi far ricrescere arti mancanti o perduti sarà possibile, e non c’è da discuterne.
Come ricorda questo accurato articolo del New Yorker, la rigenerazione è un fenomeno abbastanza comune in natura. Esistono vermi come la planaria, il campo di studi principale di Levin, in grado di rigenerarsi anche se vengono tagliati in più pezzi (il record è di 279 parti). La coda ricostruisce la testa, dalla testa si ricostruisce la coda, e così via. Le salamandre, come è noto, fanno ricrescere le zampe e la coda. I cervi le corna. E gli esseri umani, in una certa misura, il fegato. «Forse saprete o forse no che i bambini, fino a una certa età, possono far ricrescere la punta delle dita», aveva spiegato a un incontro della Neural Information Processing System a Montreal nel 2018.
La sua presenza a un convegno in cui si discute di automazione, macchine che si guidano da sole e matematica si spiega con un semplice motivo: secondo lui la differenza tra gli esseri viventi e i robot non è così marcata come appare.
Soprattutto, sostiene, esiste una forma di “memoria” delle cellule, una sorta di programmazione interna e autonoma dal cervello (almeno per gli organismi che ne sono dotati) diffusa in tutti i tessuti del corpo e in grado di modificare le proprie funzioni, in reazione agli stimoli e all’ambiente esterno. Intervenendo qui e modificando le cariche elettriche che la attraversano è riuscito, in laboratorio, a far ricrescere le zampe di un girino o un occhio sulla pancia di una rana.
L’approccio di Levin ha un fondamento importante: se il cervello, con le sue sinapsi, è stato accostato a un computer, lo stesso vale per il resto del corpo. In un certo senso, e fino a un certo punto, le cellule sanno cosa fare, ricordano come farlo e lo decidono sulla base degli impulsi che ricevono. La loro comunicazione avviene attraverso impulsi elettrici (è la bioelettricità) ed è grazie a questo meccanismo che, ad esempio, da un bruco, che di fatto scioglie il suo cervello ma mantiene la memoria, riesce a uscire una farfalla.
Il focus della ricerca è tutto qui: Levin vuole imparare il codice degli impulsi elettrici che regolano le decisioni delle cellule e impiegarlo per orientare i loro comportamenti, come appunto far ricrescere una parte del corpo. Sarebbe una scoperta che può superare, o integrare, le istruzioni del codice genetico.
Del resto fin dalla sua infanzia, ricorda il New Yorker, Levin era attratto dalla biologia, dalla meccanica e dall’informatica. Nato nel 1969 in una famiglia ebraica in Russia, aveva fin da subito messo in mostra le sue doti. Era meravigliato dal mondo degli insetti e aveva cominciato a collezionarli (e studiarli) dall’età di sette anni. Rimase incantato quando il padre, un esperto di informatica gli mostrò, in un pomeriggio di noia, come funzionasse la televisione. Lui stesso riprovò a smontare e rimontare una radio.
A otto anni, sempre con l’aiuto di suo padre, cominciò a studiare i libri di cibernetica, disciplina all’epoca ancora giovane ma che conciliava le sue passioni: la biologia e l’informatica, individuando il meccanismo con cui i sistemi riuscivano ad autoregolarsi di fronte a stimoli esterni.
La svolta fu all’età di 17 anni, quando ormai già trasferito in America con tutta la famiglia, trovò in una bancarella di libri usati il libro di Robert O. Becker “The Body Electric: Electromagnetism and the Foundation of Life”. Le ricerche dello scienziato, che riprendevano un filone antico di millenni, si concentravano proprio sull’impiego degli impulsi bioelettrici per scatenare l’abilità di una salamandra di rigenerare la zampa mancante.
Del resto è ben noto che la bioelettricità sia parte integrante della vita di una cellula. La membrana è costruita prevedendo alcuni canali, il cui impiego è far passare determinati ioni dall’esterno o dall’interno, mantenendo la carica positiva fuori e negativa dentro. Il meccanismo apre o chiude a seconda del voltaggio, invia e riceve segnali elettrici in grado di modificare il comportamento della cellula. È collegata a una sorta di internet con le altre cellule, che governano la trascrizione dei geni, le contrazioni dei muscoli e il rilascio degli ormoni.
Il viaggio nel laboratorio di Levin, descritto nell’articolo, è come l’ingresso in un nuovo mondo. Nell’area dedicata ai vermi, che vivono in enormi incubatori e suddivisi in scatole che somigliano, per forma e dimensioni, a dei normali Tupperware, ci sono esemplari di planaria di ogni forma e lunghezza. E c’è anche un esemplare con due teste, il frutto di una manipolazione elettrica.
La crescita e lo sviluppo di un organismo non segue un copione ben preciso, ma si adegua all’ambiente intorno. Le cellule si organizzano in modo autonomo, spesso impiegando più tattiche allo stesso tempo, ma senza una regia centrale.
Crescere è l’obiettivo principale e per questo si muovono insieme, comunicando tra di loro e trasformandosi di conseguenza. Il loro linguaggio – quello degli impulsi elettrici – è la chiave su cui intervenire.
Lo dimostra il caso di un embrione di rana che, manipolato dagli scienziati con flussi di ioni secondo una sequenza precisa, ha fatto sviluppare un occhio nell’area che, in previsione, sarebbe stata quella designata per lo stomaco.
Il pattern della sequenza “occhio” è stato facile da riprodurre, ammette Levin. Non si può pensare che sia lo stesso per un braccio o una mano umana. Ma è possibile pensare di poterli trovare, almeno in parte, per avviare il processo di trasformazione.
Sul punto le attese degli scienziati sono unanimi: prima o poi si arriverà a riprodurre arti o pezzi di corpo mancanti. Non si sa ancora bene come: o creandoli in laboratorio, come con una stampante 3D, oppure inducendone la ricomparsa con trattamenti diretti sull’organismo.
Per Levin si tratta solo di una parte della ricerca: l’obiettivo finale è, per lui, una mappatura completa del funzionamento della bioelettricità, dei pattern e modelli che la regolano. Soprattutto, del modo in cui interagisce con la genetica e con tutti gli altri sistemi con cui le cellule comunicano, come ad esempio i morfogeni.
Il punto è che il sistema vivente, nonostante abbia dei meccanismi che lo facciano somigliare a una macchina, è complicatissimo. La conoscenza dei meccanismi che lo regolano, almeno a un livello abbastanza approfondito per poterli hackerare, è impegnativa.
Richiede tempo, discussioni, tentativi, illusioni. Sul punto alcuni scienziati sono scettici e, pur riconoscendo il ruolo degli impulsi nelle scelte di sviluppo delle cellule, esitano a considerarlo essenziale o decisivo. È troppo presto. Ma è una strada, forse non quella più completa, che promette molto. E vale la pena tentare di percorrerla.