La disfatta strategicaI trionfatori del 2018 hanno finito per dare ragione al Pd, ma si sono tenuti i voti

Nonostante le clamorose abiure del fronte antieuropeista, illiberale e giustizialista che aveva vinto le elezioni politiche, i democratici non hanno aumentato di un soffio i loro consensi: sarà forse perché lo inseguono su quel terreno e non occupano lo spazio politico di Draghi?

inversione a u
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Tra l’abiura del giustizialismo pronunciata da Luigi Di Maio e la candidatura di Mario Draghi al Quirinale lanciata da Matteo Salvini, il capovolgimento politico-ideologico della maggioranza populista trionfatrice alle elezioni del 2018 non potrebbe essere più completo.

Se andassimo a riascoltare i comizi di quella campagna elettorale, scopriremmo infatti che non c’è praticamente una delle loro parole d’ordine che non si siano rimangiati, convergendo di fatto sulle posizioni del Partito democratico. E qui sta anche il grande enigma di questa legislatura: che sebbene gli uni si siano praticamente rimangiati tutto quello che avevano sostenuto e gli altri abbiano visto infine gli avversari di un tempo costretti a venire sulle loro posizioni, i rapporti di forza tra i due campi non sono cambiati.

Il blocco populista-sovranista del 2018 è sempre lì, attorno al 70 per cento (consensi che si sono solo redistribuiti al suo interno, sempre a vantaggio delle posizioni più estreme: dal Movimento 5 stelle verso la Lega prima e poi dalla Lega verso Fratelli d’Italia). E sempre lì, dov’era nel 2018, è rimasto il Pd, attorno al 20 per cento.

A pensarci oggi, mentre il governo Draghi procede spedito sulla strada delle vaccinazioni e delle riforme di concerto con la Commissione europea, con il sostegno di una larghissima maggioranza parlamentare, sembra incredibile, ma alle ultime elezioni, appena tre anni fa, sommando il 37 per cento del centrodestra a guida leghista e il 32 del Movimento 5 stelle, oltre due terzi di quelle aule vedevano prevalere un blocco largamente egemonizzato da posizioni no-euro e no-vax, attestato su una linea dichiaratamente antieuropeista e antiatlantica, sull’asse Trump-Putin in politica estera, illiberale e giustizialista in politica interna.

Un blocco talmente omogeneo, al di là delle distinzioni di facciata, che per prima cosa non mancò di spartirsi pressoché il cento per cento delle cariche istituzionali e di controllo nelle due Camere, dai presidenti di Montecitorio e Palazzo Madama giù giù fino ai questori. A conferma di quale fosse la loro ispirazione di fondo – e il reale pericolo corso dall’Italia in quel momento – vale a dire il modello ungherese-polacco della democrazia illiberale, ostile a ogni contrappeso, divisione e bilanciamento dei poteri.

Sul fronte opposto, i sostenitori della democrazia liberale, schierati su una linea europeista, riformista e garantista, di fatto, si riducevano a poco più del misero 18 per cento raccolto dal Pd.

Se ci pensate un momento, è a dir poco sconcertante che un simile rovesciamento di posizioni, che dovrebbe segnare sulla carta il trionfo politico dei democratici, non si sia tradotto in alcun significativo aumento dei loro consensi. Vista da questa altezza, sembrerebbe la prova più inconfutabile del definitivo impazzimento di un intero sistema politico, in cui non c’è più alcuna corrispondenza tra politica e consensi.

Forse però la questione è meno enigmatica di come appare a prima vista. Forse è accaduto semplicemente che i fatti – a cominciare dalla svolta europea sul Recovery fund, senza il quale l’Italia sarebbe andata a picco – hanno reso insostenibili le posizioni dei nazionalpopulisti (per non parlare dei loro deliri antiscientifici, in tempi di pandemia), ma anche estremamente semplice e conveniente correggere la rotta.

Giacché i democratici, invece di presidiare quello spazio, da dove avrebbero potuto quanto meno imporre agli avversari una sana passeggiata sotto le forche caudine, lo avevano lasciato sguarnito per inseguirli sul loro terreno, recitando stupidissime geremiadi sul blairismo e la Ztl. Una giaculatoria tanto più grottesca nel momento in cui quegli altri, quelli con una chiara scala di valori, punti di riferimento fortissimi di una sinistra veramente popolare, facevano leggi per impedire alle navi di salvare gente che affoga.

Fino al colmo di questi giorni, in cui l’assoluzione del sindaco di Lodi, oggetto a suo tempo di una vergognosa campagna di denigrazione da parte dei populisti, è diventata un trampolino per la rinascente leadership di Di Maio, e motivo di imbarazzo per il Pd (per non parlare del suo pseudo-alleato, Giuseppe Conte, di cui ormai si sono perse le tracce).

La provvisoria conclusione che se ne può trarre, in poche parole, è che per raccogliere i frutti di una battaglia politica è necessario, prima, averla fatta.

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