Qualcuno dica all’ufficio stampa del Partito democratico di intervenire in Rai per cambiare il materiale di repertorio usato per appoggiare le dichiarazioni di Enrico Letta. Si vede il segretario ripreso per strada, dalle parti del Nazareno, che fa slalom tra auto parcheggiate e si infila nel portone con il cellulare incollato all’orecchio, quasi in fuga da qualcuno. In alternativa, un Letta in mascherina con in mano una borsa di plastica della spesa, sorpreso – sembra – al ritorno dal supermercato dove forse ha acquistato il dentifricio dimenticato a Parigi. Sono immagini che fanno pensare a un uomo solo senza comando, metafora malinconica di un leader tornato troppo di corsa. Gioverebbe un Letta al lavoro con i suoi.
Immagini a parte, dopo 100 giorni di segreteria, l’impressione politica è appunto quella di un capo senza un partito al seguito, o di un partito senza wi-fi connesso a lui, e dispiace perché Mario Draghi ed Enrico Letta sono le due buone notizie del 2021 prima del vaccino, e facciamo il tifo perché la capacità di governo e quella politica tornino a contare, nell’Italia del dopo Conte&Arcuri.
Ma il circuito positivo tra il Pd e il suo segretario sembra non ancora avviato, come se fossero due corpi estranei da ricomporre. Il partito è forse ancora sotto choc dopo gli sberloni del segretario precedente, che pure era stato eletto con tanto di gazebo, ma proprio non ne poteva più e addirittura si vergognava. Per questo il popolo Pd, che magari non avrebbe sostenuto Letta alle primarie, ha certamente salutato con sollievo una soluzione che non danneggiava nessuna delle correnti: meglio un segretario “francese” che un uomo (o una donna) di Dario Franceschini o di Andrea Orlando.
E così – passato il festeggiamento bulgaro al figliol prodigo – ha potuto rapidamente riprendere le abitudini di sempre, facendo intanto nascere un paio di correnti in più, che non guastano mai. Il Nazareno riempito da una segreteria nuova nuova, con qualche buona concessione al segretario (almeno questo), ma anch’essa senza ancora capacità di incidere sulla rotta. A quello, pensa il partito autoreferenziale dei ministri e quello dei parlamentari.
Quando si è trattato di cacciare Graziano Delrio e Andrea Marcucci, nessuno poteva ancora ribellarsi, e la rivoluzione femminista è quindi passata senza danni, ma è sembrata non una svolta ma l’occasione per fabbricare un po’ di nemici del nuovo segretario. Forse più tra le democratiche che tra i democratici.
Per non parlare della periferia, sempre più lontana, che non è certo in grado di superare frustrazioni pesanti (c’è una seconda fila che scalpita da anni, con poco spazio nel futuro Parlamento mutilato dalla condiscendenza zingarettiana) e non si accontenta di aver riempito un questionario.
Negli uffici del Nazareno sembra nel frattempo che sia prevalsa la morettiana domanda sul modo in cui farsi notare.
Al debutto, Enrico Letta non potendo fare l’unico annuncio di vera discontinuità, e cioè la separazione delle carriere tra Pd e Cinque stelle, ha cercato di fare notizia con un tratto di progressismo di qualità, ma marginale: il voto ai sedicenni, lo ius soli. Tutto però fuori contesto, senza un disegno organico, ma perfetto per trovare subito un nemico, facendolo felice, perché a Matteo Salvini non par vero tutt’oggi di distrarre i suoi dal vero problema, e cioè l’attrattività di Giorgia Meloni. Quando un uomo con la ruspa incontra un uomo col cacciavite, si sa come va a finire…
Ma che senso ha il quotidiano battibecco Letta-Salvini, visto che devono convivere sotto il tetto di Palazzo Chigi ed è francamente infantile denunciare il leghista come un intruso? Finisce che è lui che ti accusa di destabilizzare Draghi, perché ti inventi dalla sera alla mattina una “nuova tassa”, e ti prendi anche il rimbrotto del premier, che non ha ancora assimilato il bon ton diplomatico, vedi come ha trattato uno come Recep Tayyip Erdoğan.
Letta sembra in questi casi l’uomo in grigio che la mattina indossa una cravatta a colori vistosi – fino al confine del cattivo gusto – perché ha un po’ il complesso dell’essere troppo razionale, troppo conformista, troppo per bene.
Ma l’era Draghi è proprio questo, farsi apprezzare per razionalità e buon senso, non per sorprendere con qualcosa che altrimenti sembra solo un fuor d’opera.
Vuoi mettere una bella proposta organica di riforma fiscale? È roba che sta perfettamente nelle corde di uno come lui, che la farebbe molto bene.
Ma il limite di Enrico Letta, non risciacquato nelle acque della Senna, è sempre stato quello di temere di essere troppo grigio. Si vedano certe battaglie sui costi della politica, sull’immunità parlamentare, sul finanziamento dei partiti. Anche la rinuncia a essere remunerato per fare il segretario, è un segno di debolezza psicologica, non di indipendenza come vorrebbe.
Dicono che Enrico Letta butti a sinistra il Pd. A noi non pare, se non altro perché la tendenza più perniciosa, e cioè la compiacenza verso i Cinque stelle, è tutto fuorché di sinistra. Sembra astuzia democristiana o disegno furbetto alla Goffredo Bettini. Ma il mondo produttivo che ha spinto Salvini nel governo tramite Giancarlo Giorgetti, finisce per apprezzare di più le sfacciate concretezze leghiste, oppure – se proprio non ci casca – stima di più il buon senso di Pier Luigi Bersani, antico compagno di faticosa riconquista dei ceti produttivi in una fortunata fase del passato, e ancor oggi capace di parlare la lingua comprensibile all’imprenditore coraggioso.
Questo proclamarsi sempre con gli “ultimi” sta diventando un complesso. Non è che se il Pd prende voti nelle ztl è diventato di destra. È solo che lì ci sono ceti che sanno bene quanto è duro il mondo fuori dalle isole pedonali e apprezza chi è concreto e non ideologico, non chi vuol “restituire” (pessima scelta semantica) un presunto maltolto demonizzando qualche migliaio di contribuenti.
E poi non può sfuggire alla cultura cattolico-liberale dell’allievo di Beniamino Andreatta che, a ragionar così, ai tempi delle carrozze il Pd avrebbe dovuto schierarsi con i cocchieri, gli “ultimi” dell’epoca, minacciati dall’avvento delle automobili. Non può insomma dar ragione a Giuliano Ferrara quando lo ammonisce di star lontano dai modelli Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez e gli ricorda che la fabbrica della giustizia sociale non sta dalle parti del dirigismo di stato e del peronismo selvaggio.
Queste cose, Letta le sa bene e le ha spiegate anche a Sciences Po, in questi anni. Non possiamo fargli il torto di non saperlo. Lo scriviamo qui, proprio in funzione della stima che nutriamo per lui. Lo diciamo insomma con grande affetto e rispetto, perché facciamo il tifo per la ricomposizione tra testa pensante del segretario e corpaccione disordinato del suo partito. Il mondo progressista però non è più quello che dipingeva negli anni Settanta la scuola di Bologna. Oggi, magari sbagliamo, ma ci piace pensare che uno come Andreatta sarebbe un fautore del 4.0 e del jobs act.