Due illusioni e un errore di prospettiva
Nel simposio bettiniano di qualche giorno fa le novità non vanno cercate nella proposta politica. È sempre la stessa: l’alleanza demopopulista fondata su una doppia illusione e su un errore di prospettiva. La prima illusione è che Giuseppe Conte faccia il miracolo di trasformare il violento magma anticasta, giustizialista e parassitario, creato da Casaleggio padre e da Beppe Grillo su basi ideali indubbiamente di destra, non molto lontane dal sovranismo di Matteo Salvini, in un informe movimento pallidamente moderato, ormai solo espressione dei ceti marginali del Mezzogiorno (basta vedere la geografia del reddito di cittadinanza per capirlo), che accetti per sopravvivere di fare finta di collocarsi a sinistra, in cambio di una comune visione assistenzialista e statalista del futuro del Paese.
Da questo punto di vista i vari Francesco Boccia, Gianni Cuperlo, Nicola Zingaretti, Giuseppe Provenzano, Massimiliano Smeriglio, Andrea Orlando non fanno nessuna fatica ad assecondarli perché sono eredi di quella parte della tradizione comunista di stampo populista che ha sempre pensato che i rapporti tra la redistribuzione del reddito e la produzione della ricchezza fossero labili e che il debito pubblico fosse il risultato positivo della lotta di classe: un modo per fare piangere i ricchi, perché le coperture sono politiche fiscali sempre più esigenti (il mito della patrimoniale) e non le future generazioni come nei fatti sta accadendo.
L’altra illusione è che questa alleanza organica, cementata dalla presenza della galassia di partiti e movimenti di estrema sinistra, molti dei quali esistono solo sulla carta e nei talk show televisivi (Articolo Uno), riporti sotto le bandiere del Partito democratico quel popolo di sinistra che lo aveva abbandonato perché Matteo Renzi era di destra e per giunta antipatico.
Benché l’evoluzione elettorale del Pd testimoni, com’è accertato anche dalla ricerca scientifica, che il Pd i voti li abbia persi “a destra” (e cioè in quelle componenti sociali moderne, riformiste, postideologiche, che lo avevano votato proprio per ragioni opposte a quelle accampate dalla vulgata bettiniana) e benché il messaggio demopopulista finora non sia riuscito a invertire la tendenza al declino, con tetragona cecità Goffredo Bettini e il suo gruppo ripetono questa teoria consolatoria, questo mantra quasi religioso.
Vi è in questa ripetizione ossessiva di una visione sbagliata il riprodursi in chiave farsesca di una storia tragica della tradizione comunista, costretta a difendere l’indifendibile, a ripetere dogmatiche senza fondamento perché permanentemente “in ritardo” nella comprensione dell’evoluzione del mondo.
Massimalismo nostalgico
A queste due illusioni si aggiunge un errore di prospettiva politica derivante da una concezione del riformismo come variante di un esausto anticapitalismo, come strumento di una lotta tra Stato e mercato, nel quale possono trovare posto sia gli inconsolabili eredi delle “riforme di struttura” di berlingueriana memoria, sia pezzi di ceto politico populista, sopravvissuti cantori del reddito di cittadinanza e della decrescita infelice.
Ma lo sforzo teorico e politico di Bettini sarebbe francamente poco significativo e non meriterebbe un impegno analitico degno di miglior causa, se questo accrocchio massimalista non fosse l’unica visione di se stesso e del futuro che il Pd abbia elaborato dal 2018 a oggi. Tutti gli altri non pervenuti.
Ma la novità, come ho detto, non sta qui perché l’ideologo della maggioranza zingarettiana ha ripetuto molte volte in questi ultimi mesi, in libri e in interviste, questa sua confusa concezione del mondo, che, al di là della suggestiva idea di mettere insieme cristianesimo e socialismo, Marx e San Paolo, non è altro che lo scoperto e liso involucro ideologico che sorregge la corrente dei nostalgici di Conte e degli avversari di Mario Draghi, che qualche mese fa credeva di essere a due passi dalla meta (il Conte III senza Italia Viva) e che invece Renzi ha spinto in un abisso minoritario da cui fatica a risollevarsi. Da qui lo ripete infinite volte nella speranza che qualcuno, oltre il suo sinistro inner circle, ci creda.
Conte: il nulla come programma
La novità sta invece nelle risposte dei suoi interlocutori e soprattutto dei due principali invitati: Conte ed Enrico Letta. Il primo, come al solito, non ha detto nulla, se non che il liberismo è arrogante, che il nuovo movimento che lui sta organizzando non è né di destra né di sinistra e che, soprattutto, il M5S non è ancora pronto per uscire allo scoperto per impegnarsi in un’alleanza stabile (“organica”, si sarebbe detto una volta) con il Pd. Il tutto infarcito di chiacchiere vuote e di palesi menzogne: non un colpo al cerchio e una alla botte, ma l’immane sforzo linguistico per occultare l’una e l’altra.
Conte sa bene che l’insieme di cristianesimo e socialismo sia più fuffa che ideologia, ma che per ora il suo nascente nuovo M5S non ha alternative concrete a quella di assecondare blandamente il gigantesco imbroglio della “grande alleanza” di sinistra, anche perché è l’unica che gli consente di muoversi nella terra di nessuno di un postpopulismo di maniera, confuso e inconcludente, senza che nessuno nel Pd gliene chieda conto. Se glielo chiedesse scoprirebbe amaramente che il “revisonismo” di Conte non esiste, e che la sua patetica invenzione secondo cui il M5S non “è più quello di una volta” si scioglierebbe come neve al sole.
Letta nell’angolo
Ma da Conte nessuno si aspettava che dicesse nulla di diverso da quello che ha detto; anzi, ha svolto il suo compitino per la gioia del suo ospite. Più complesso è valutare la presenza di Letta. I più ottimisti pensavano che avrebbe utilizzato questa “agorà” per precisare meglio il suo progetto politico che, sulla carta, dovrebbe essere molto diverso da quello di Bettini sia dal punto di vista dei suoi presupposti ideali sia da quello relativo alla proposta politica.
Purtroppo, gli ottimisti sono stati smentiti e hanno avuto ragione i pessimisti, che da sempre sono convinti che il patto di sindacato correntizio che ha portato Letta alla segreteria fosse basato sulla conferma, senza molti margini di cambiamento, della strategia politica di Zingaretti. L’unanimità della nomina sottendeva l’immutabilità della proposta politica. E cosi è puntualmente accaduto. Letta si è esibito in un peana all’alleanza Pd, M5S, Leu e dintorni, riconoscendo che questa operazione politica non ha attualmente alternative, che rappresenta l’unica carta da giocare nello spazio politico da parte del Pd e che lui ne è in qualche modo il garante.
È la confessione di essere non un nuovo condottiero capace di portare il partito verso lidi inesplorati oltre il flebile immaginario correntizio, ma un segretario provvisorio che ha deciso di sopravvivere senza cambiare il menu e i posti a tavola, nella convinzione, forse fondata, che ogni cambiamento farebbe naufragare la posticcia unità del partito.
Il Pd di lotta e di governo
Ma sedersi a quel tavolo impedisce a Letta di essere coerente con l’affermazione più volte ribadita che il Pd si riconosce nell’agenda Draghi, perché con la sua presenza ha di fatto accettato la versione di Bettini di quel riconoscimento.
Infatti, quell’agenda può essere sostenuta fino a che resta uguale a quella del mitizzato Conte III: una condivisione dunque non strategica, ma tattica, obbligata dalle circostanze (il famoso complotto?) ma non coerente con la nuova identità antiriformista del partito voluta da Bettini e dai suoi sostenitori, che sono ancora il socio di maggioranza della “ditta”; una condivisione che può reggere fino a quando il taglio riformista e europeo dell’azione del governo non mini il baricentro statalista, assistenzialista, antindustrialista dell’alleanza con i Cinquestelle, e fino a quando la difesa della sua stabilità non entri in rotta di collisione con “l’antisalvinismo” che di quell’alleanza costituisce un altro pilastro.
Quel simposio ha mostrato dunque un Letta debole, che oltre a Conte e Elly Schlein, non sa “stringere la mano” agli esponenti di quel mondo riformista che in questi mesi sta facendo prove di unità e che ha un bacino elettorale enormemente superiore a quello dei Pier Luigi Bersani e dei Nicola Fratoianni. Un segretario prigioniero di quelle correnti che avrebbe voluto distruggere e che lo costringono a muoversi all’interno del perimetro dell’”unità della sinistra” che cozza con tutte le eredità uliviste a cui costantemente rimanda per definire sé stesso. Ma forse, come per il suo maestro Romano Prodi, quell’eredità non è più una bussola efficace, tanto e vero che hanno invitato Luigi Di Maio a unirsi nel Pse.