Da pochi giorni è in libreria “La guerra dei cinquant’anni. Storia delle riforme e controriforme del sistema pensionistico” (IBL Libri, 275 pp., 18 euro,) il nuovo libro di Giuliano Cazzola. Tra i maggiori esperti italiani di lavoro e politiche sociali, con un passato da sindacalista, parlamentare e docente universitario, in questo libro Cazzola racconta «tutto quello che sarebbe opportuno conoscere dell’universo del sistema pensionistico e delle sue interconnessioni, ma che di solito non viene raccontato. Numeri, vicende, progetti di riforma realizzati e falliti…». Pubblichiamo di seguito la prefazione scritta da Elsa Fornero.
Un collega economista mi chiese, ormai molti anni fa, perché mai avessi deciso di occuparmi di pensioni, un argomento «così poco intellettualmente gratificante» e così poco (era la sua opinione) da rivista con alto impact factor.
Avrei voluto rispondergli appellandomi ai nobili principi della solidarietà a favore dei segmenti più deboli della società e della lotta alle diseguaglianze che dovrebbero caratterizzare il welfare – di cui il sistema previdenziale è l’elemento di gran lunga più importante, in termini di spesa.
Tuttavia, anche conoscendo l’enorme debito implicito trasferito alle generazioni future e la congerie di piccoli e grandi privilegi nascosti dentro il sistema, preferii dirgli la verità, ossia che avevo scelto di occuparmi di previdenza perché questo era il filone di ricerca del mio maestro accademico, Onorato Castellino. Un filone che combinava, nella sua impostazione, rigore scientifico e forte rilevanza sociale, due elementi che ho sempre considerato essenziali nell’attività di un ricercatore.
Negli anni seguenti, la domanda mi fu riproposta molte altre volte, quasi sempre con implicita allusione al fatto che si trattasse di un tema da contabili più che da economisti.
Mai avrei immaginato che quella scelta di campo mi avrebbe portata, un giorno, a dover prendere decisioni non già per me stessa o per la mia famiglia ma per il mio Paese: decisioni impopolari, dolorose, difficili da comprendere, certamente migliorabili ma pur sempre necessarie. Mi avrebbe condotta a dare il mio nome a una riforma previdenziale e a dovermi confrontare con un’opinione pubblica infuocata sul tema e spesso dominata da luoghi comuni, illusioni, richiami a “diritti acquisiti”, senza chiedersi su chi sarebbe ricaduto l’onere.
Quante volte mi sono sentita domandare, in incontri pubblici, «che ne è stato dei miei versamenti contributivi, chi li ha “rubati”?». Una domanda mossa da una doppia erronea convinzione: da un lato, che ognuno si sia finanziato la propria pensione con i contributi versati da lavoratore mentre, in realtà, la stragrande maggioranza delle pensioni in essere è superiore all’importo che si otterrebbe se si tenesse conto, secondo il metodo contributivo, dei soli contributi versati e dell’età del pensionamento.
Dall’altro, che il sistema funzioni capitalizzando finanziariamente i contributi versati da ciascun lavoratore fino al momento della quiescenza, mentre in realtà i contributi che entrano nel bilancio dell’Inps sono utilizzati, nello stesso periodo, per finanziare la spesa pensionistica, secondo il metodo della ripartizione.
Un altro esempio di interpretazione ingannevole è rappresentato dal presunto teorema del “numero fisso di posti di lavoro”, che legittima il pensionamento anticipato come uno degli strumenti per far entrare i giovani nel mondo del lavoro. A questa concezione si sono ispirati i vari provvedimenti di abbassamento dell’età di uscita dal mondo del lavoro che si sono susseguiti nel tempo fino all’ultimo, ossia alla famosa “quota 100” fortemente voluta da Matteo Salvini e introdotta nel 2019, per tre anni, dal governo formato da Lega e Movimento 5 Stelle.
La questione del rapporto tra lavoro e sistema previdenziale è ovviamente complessa e una parte di verità c’è indubbiamente anche in questo luogo comune. Tuttavia, un solido lavoro realizzato da ricercatori della Banca d’Italia ha mostrato come proprio la riforma del 2011, costringendo le imprese a trattenere forza lavoro “anziana” (oltre i 55 anni), le abbia in realtà indotte ad aumentare, nei tre anni successivi, sia l’occupazione giovanile, sia quella di mezza età.
Lo studio avvalora così l’ipotesi che i lavoratori di diversa età siano complementari piuttosto che sostituti, e che quindi anziché considerare il lavoro come quantità fissa da ripartire occorra domandarsi come congegnare un mercato del lavoro “inclusivo”, piuttosto che continuare con la logica dei provvedimenti di corto respiro che tendono a sostenere l’idea che l’uno rubi il lavoro all’altro (tra l’altro, per lungo tempo applicato alle donne, che si riteneva dovessero lavorare soltanto se il lavoro del “capofamiglia” non bastava alle necessità quotidiane).
Queste considerazioni, e altre che si potrebbero facilmente aggiungere, mostrano come, nonostante la popolarità del tema pensioni, la conoscenza dei concetti che stanno alla base di questo fondamentale “contratto tra generazioni” è spesso purtroppo approssimativa e dominata da convinzioni assai poco rigorose. Il che può facilmente condurre a comportamenti dannosi per il singolo (come l’accettazione di un lavoro sommerso in cambio di un “netto in busta” più elevato) ma anche per la collettività e in particolare per le generazioni future, sotto forma di opposizione a riforme necessarie per la sostenibilità (termine oggi molto in voga con riferimento all’ambiente ma misconosciuto per quanto riguarda le grandi istituzioni sociali, come il sistema pensionistico); l’adeguatezza (ossia la capacità di offrire un buon livello di sicurezza economica nell’età anziana, costruito sul lavoro e non sulle promesse politiche) e anche la modernizzazione del sistema (per esempio, sul piano della parità di trattamento tra generi).
Riforme, pertanto, ispirate agli obiettivi che qualificano un sistema pensionistico pubblico nell’impostazione europea corrente.
Per tutte le ragioni anzidette, i libri che “narrano” di pensioni in modo semplice ma accurato sono importanti. “La guerra dei cinquant’anni” di Giuliano Cazzola si colloca, a pieno diritto, nel filone dei libri che fanno educazione previdenziale.
Cazzola è stato, per un lungo periodo, testimone e protagonista del lento, accidentato e tormentato percorso di riforma del sistema previdenziale del nostro Paese. Le riforme che racconta, analizza e critica sono quelle degli ultimi cinquant’anni (a partire dalla riforma del 1969, che introdusse il generoso metodo retributivo di calcolo della pensione, che ne agganciava l’importo a una media delle ultime retribuzioni o addirittura all’ultima, nel caso dei dipendenti pubblici; una formula certo rassicurante per i beneficiari ma non sostenibile di fronte all’invecchiamento della popolazione e fonte di molte iniquità).
Il libro descrive il percorso delle riforme e ne analizza il contesto, inframmezzando il resoconto delle posizioni/opposizioni e delle scelte/non scelte politiche con delucidazioni sui concetti base e sulla terminologia tecnica dei sistemi previdenziali, inclusi i meccanismi di finanziamento e di funzionamento, le sigle e le specifiche regole dei vari enti di quel labirinto (copyright di Onorato Castellino) che era il nostro sistema previdenziale, e che fino alla riforma Amato del ’92 procedette con nuovi benefici, incurante del grido d’allarme di istituzioni internazionali e di singoli studiosi.
La scrittura è vivace, talvolta un po’ provocatoria, talaltra denota il chiaro intento di togliersi sassolini dalle scarpe ma da essa traspaiono grande competenza, passione per una materia ostica ai più e onestà intellettuale. Un libro da leggere per comprendere, orientarsi e anche per valutare le differenti posizioni in ambito politico e delle parti sociali.