Mi piace essere ospite gradito, oggi lo sono. Ospite di lei nella sua casa collinare, collinare come in un disegno infantile: una collina tondeggiante con la casa in cima. Siedo su una sdraio, il sole del pomeriggio quasi in faccia ma non tanto, un po’ alla mia destra, i piedi della sedia nel morbido del prato che poco più avanti a me comincia a scendere come il dietro di un cavallo. Mi viene in mente che è come cavalcare un cavallo al contrario, anzi un elefante, ma la groppa non è del cavallo né dell’elefante, è la groppa di questa collina. Dietro di me la casa di pietre vive e legno.
Lei mi ha detto, mentre uscivo per primo dalla doccia, aspettami fuori al sole, nello stesso registro basso, intimo, col quale mi direbbe aspettami dentro. Insomma, il dentro e il fuori riposano come animali tranquilli sia al sole sia tra le mura, non li disturbiamo facendo distinzioni. Questa è la mia impressione uscendo a piedi nudi sull’erba: niente è strano e niente si stranisce. La sedia a sdraio è aperta e poco più avanti il prato discende. La bottiglia di un vino fresco in una mano, le dita strette al collo, due bicchieri nell’altra, le dita tra gli steli, mi siedo (lo ero già, seduto, ma ho ricostruito).
Niente è strano qui, è strano tutto il resto che non è qui. Tutto il resto che non è qui mi pare strano se ci penso, allora finisco di pensarci tra poco.
Come una illustrazione mi strappo dalle pagine di un libro nel quale sono raccontate tutte le stranezze della vita: personaggi che salgono e scendono scale, che percorrono strade all’andata e al ritorno, che dicono e ridicono, che affermano e smentiscono, che nel merito e nel metodo, che il prosieguo (ma dicono proseguio, soprattutto in ambito sportivo), che il distinguo (in ambito politico), che “sono stato interrotto, ho diritto…” (nessuno che mai dica “mi interrompa, per favore o per pietà”), che “non ho detto questo”, che “l’apprezzo molto” (quasi come in un film statunitense, anzi non quasi, ché proprio da lì viene, è un adattamento), che “mi scuso”, anzi “mi autocritico” (ormai megalomanie di bassa astuzia, totalmente ribaltanti, rivoltanti quindi), che “devo leggere le carte” (megalomania anche questa da alfabetizzato di ritorno).
Insomma umanità, una umanità che sembra, con in mano la corda di una cavezza, percorrere la giornata per condurre il mattino a mutare in sera.
Dico così perché da qui vedo laggiù una similitudine che, e sia per questo benedetta, non sa di esserlo: una cavalla condotta all’abbeverata e poi alla stalla.
Qui, ora, non succede niente, la giornata è scavezzata, può liberamente fare quello che le pare da qui all’orizzonte, può brucare l’erba, divorare un bosco, frangere le case avite come coste di verdure. E tutto questo accade anche se non è visibile, ma non è detto che quel che accade sia sempre visibile, anzi è vero il contrario (il contrario è il vero?). Chi lo dice? La storia. Quale storia? La storia che è sempre da riscrivere, quindi quel che veramente accadde è nel futuro come riscrittura.
Sorseggio, non bevo, mi comporto come il sole, labbreggio sull’orlo del bicchiere come il sole su questa superficie di terra. Anche lei esce all’aperto, indossa un suo accappatoio di spugna, invernale ancòra, io un accappatoio estivo di cotone, sempre suo. Si avvicina, mi ha raggiunto, è dietro di me, un po’ alla mia sinistra, mi muovo in torsione verso di lei. No, stai, mi dice, poggiando una mano sulla mia spalla.
Siamo chiari, lo sono gli accappatoi, color perla il mio, color osso il suo, il resto è color carne, pelle scoperta e piedi nudi, il prato è verde, la casa è del colore vario delle pietre e del materico colore del legno, un colore abbondante e spesso, dato col pennello grosso, siamo un quadro (prima ero soltanto un disegnino). Uno di quei quadri cavillosi e fotografici nei quali tutto è fermo, ogni agitazione è stata spazzata fuori dai pennelli che hanno fatto pulizia come piccole scope (lo sono). Quei quadri che a guardarli si pensa: ma sì, ogni istante è un quadro, non le ore e ore, i mesi e gli anni, l’attimo è il soggetto, ci avessi pensato prima, prima di mettermi a dipingere in maniera astrusa senza capo né coda, qui il capo è la coda, a saperlo prima, sì.
Il po’ di tela della sdraio dietro la mia testa è colore rosso. Io non la vedo ma la so, l’ho vista prima, la vedranno i visitatori all’eventuale mostra.
Dove ho messo il suo bicchiere? Sul prato, anche la bottiglia, sotto la sedia all’ombra, ho il mio bicchiere in mano, inclinato oltre il bracciolo, come cadente, invece no, è stabilizzato con fermezza pittorica.
Fare niente, è veramente possibile fare niente, anzi è l’unico fare possibile.
Restate fermi così, non fate niente, dice il pittore di fronte a noi ossia il paesaggio con la camicia azzurro cielo e i pantaloni verde scuro di velluto dei cipressi a coste laggiù, là dove una collina, un’altra, di fronte a noi risale.
Non fare niente. Tutto quello che facciamo nella vita (vivere significa fare qualcosa) è niente se non porta a fare niente, a devitalizzarsi pur vivendo. Ma ci vuole coraggio. Ho visto trasvolare una gazza da boschetto a boschetto.
In una pausa ossia in un eccesso di vitalità ho raccolto la bottiglia, lei il bicchiere, le ho versato da bere, ho rimesso la bottiglia all’ombra sotto di me. Lei beve un po’, poi distende il braccio come una fune evasiva lungo il suo corpo, a piombo, le dita intorno alla coppa come le ganasce di una morbida gru. L’altra mano sulla mia spalla ancora.
Quando non succede niente, sembra che allora si viva e ci si appaghi, e sembra che per questo abbiamo vissuto: perché qui, ora, nulla accada. Volevamo tutto, volevamo questo nulla. Anche il sole sembra stare in cielo come noi siamo qui, nullafacente, declinante come il bicchiere nella mia mano e allo stesso tempo sorretto dalle dita di lei senza alcuno sforzo. Sì, certo, qualche esplosione superficiale ma bisogna pur sbattere le ciglia o lasciare che una leggera brezza muova una ciocca.
La natura è del tutto indifferente a noi, noi a essa, quindi non c’è nessuna ipocrisia nell’aria.
M’è parso che il pittore abbia detto ecco adesso. Muovo la mano libera e raggiungo la sua sulla mia spalla, e là lei me la stringe. Un suo ginocchio preme sulla mia schiena e sulla tela tesa, poi si
ritrae, poi torna, mi fa oscillare. La mano nella sua, arretro il braccio, tocco con il gomito il corpo di lei oltre l’accappatoio che mi solletica.
Sul sole ciocche mosse e battiti di ciglia, poi il tramonto.