Da un po’ di tempo la parola “protezione” (in tutte le sue possibili declinazioni) è diventata una delle più usate del dibattito pubblico, dai media alle conversazioni informali. Si parla di protezione contro la pandemia, ovviamente, ma non solo: si discute di protezione ambientale, di protezione sociale, di protezionismo commerciale.
Sono temi differenti, distanti, ma comunque connessi tra loro: tutti insieme riflettono la sensazione e il bisogno di maggior sicurezza da parte delle persone.
Non è certo la prima volta che la necessità di protezione investe la politica e la società. Anche Platone e Aristotele definivano la politica come l’arte della protezione e chiamavo “guardiani” coloro che si occupavano di politica.
Anche Thomas Hobbes, filosofo nato alla fine del XVI secolo, considerava – per riassumere al massimo il suo pensiero – la politica come uno scambio tra due parti: l’obbedienza dei cittadini da un lato e l’offerta di protezione dello Stato dall’altro.
Sul finire del Settecento, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, Alexander Hamilton, nella sua raccolta di articoli e saggi “Il Federalista” scriveva: «La sicurezza dal pericolo esterno è il più potente direttore della politica nazionale». E dopo di lui molti pensatori contemporanei hanno parlato di forme di protezionismo più o meno accentuate legate a periodi di crisi, percezione del pericolo, difesa dei confini, commercio e altri settori.
Nell’ultimo anno la pandemia ha portato la politica – a tutti i livelli e in tutto il mondo – a rimettere al centro del dibattito il tema della protezione. È stato inevitabile. Basta pensare a come il termine sia stato usato per indicare la protezione individuale – quindi mascherine, distanziamento, igiene – e la protezione delle categorie più fragili; ma anche la protezione dell’ambiente dalla produzione industriale o quella delle classi sociali più disagiate in un periodo di difficoltà economica.
È per questo che il tema della protezione non va inteso solo come un tema della politica conservatrice, o di un certo tipo di destra: è un argomento trasversale, che fa parte di tutte le offerte politiche, e risponde a esigenze molto variegate della popolazione.
«Il trauma scatenato dalla crisi del coronavirus ha concentrato l’attenzione pubblica sul pericolo di questa fase storica, e ha aumentato la consapevolezza di quanto siano fragili e impreparate le società», ha scritto il sociologo e teorico politico Paolo Gerbaudo in un articolo su New Statesman.
«Non è un caso», prosegue Gerbaudo, «che durante l’emergenza sanitaria i governi abbiano finalmente iniziato a intraprendere azioni concrete (anche se insufficienti) contro il cambiamento climatico, una minaccia che supera di gran lunga il coronavirus in termini di potenziali costi sanitari ed economici, e che accresce il rischio di nuove malattie. La crisi ha anche portato a una sorprendente rinascita della protezione sociale per prevenire la miseria di massa e le rivolte popolari».
L’analisi, infatti, non riguarda soltanto la pandemia da coronavirus, ma tocca tutti gli aspetti in cui nuove forme di protezionismo stanno invadendo la società.
L’autore decide di aprire il suo articolo con un aneddoto risalente al disastro di Chernobyl del 1986. «Quell’anno», si legge su New Statesman, «il sociologo tedesco Ulrich Beck ha pubblicato un libro influente sull’ascesa della Risikogesellschaft (la “società del rischio”). La frase richiamava l’attenzione sulla profusione di nuovi rischi (radiazioni nucleari, tossine nel cibo, inquinanti nell’aria) che stavano ridefinendo l’agenda politica. Il calcolo e la gestione dei rischi ambientali, spesso invisibili a occhio nudo, sarebbero diventati centrali in quella che Beck definiva come una “seconda modernità”, interessata a far fronte agli “effetti collaterali” del progresso tecnologico».
E ovviamente lo stesso Ulrich Beck, citato da Gerbaudo, non immaginava che quelle condizioni e quei rischi sarebbero diventati così presenti e così estremi pochi decenni dopo, quando una crisi sanitaria ed economica si sarebbe inserita in un contesto in cui la crisi climatica e quella delle migrazioni erano già parte integrante della società.
«I rischi si sono trasformati in minacce catastrofiche: le pandemie, la forza brutale di una natura destabilizzata, la povertà di massa, tutti quei flagelli che la modernità una volta sembrava aver debellato, stanno riaffiorando», si legge nell’articolo.
Il bisogno di maggior protezione, e quindi di una politica protezionista, è ancor più evidente se si guarda il mondo economico. Il protezionismo commerciale è sicuramente una delle forme di difesa dell’interesse nazionale più facilmente riconoscibile – per quanto non sia l’unica – ed è oggi una soluzione particolarmente frequentata dai leader politici.
Durante la pandemia molti capi di Stato e di governo si sono esibiti in forme di protezionismo di ogni tipo. Donald Trump in testa: la sua Amministrazione ha instaurato una guerra commerciale con la Cina, ma anche con il Canada e con l’Unione europea. L’impatto di Trump e dell’atteggiamento che ha rappresentato la cifra stilistica della Casa Bianca per quattro anni è stato quello di un meteorite che si è abbattuto su un mondo della politica americana e mondiale che veniva da decenni di globalizzazione e di apertura commerciale. Ma la forza della domanda protezionistica di oggi la si intuisce anche dalla proposta politica del successore di Trump: lo stesso Joe Biden infatti, come dimostra il suo “Buy American”, sta adottando provvedimenti per proteggere i lavoratori americani.
Qualcosa sta cambiando anche tra i grandi imprenditori. L’articolo del New Statesman individua un’evoluzione nel linguaggio, e cioè una trasformazione della parola “espansione” (che era la regola d’oro del settore) in “resilienza”. E, come si nota dall’aumento delle società di sicurezza private, è cresciuta la dimensione della protezione e della sicurezza. Branko Milanovic nel suo libro “Global Inequality” del 2016 notava che solo negli Stati Uniti il numero di persone che lavorano nel settore della sicurezza è cresciuto fino a cinque milioni.
È normale, peraltro, che dopo due crisi consecutive in un tempo ravvicinato, quella del 2008 e quella del 2020, i cittadini di tutto il mondo siano particolarmente propensi all’idea di un maggior interventismo statale e di misure protezionistiche di qualche tipo. A questo punto, però, va sottolineata una differenza sostanziale tra varie forme di protezionismo. Perché non tutte le domande di maggior protezione incontrano la stessa offerta politica.
In molti Paesi i governi di destra o di centrodestra hanno scelto di accantonare – almeno in parte, almeno per un momento – alcuni principi che consideravano fondamentali: «Leader come Donald Trump e Boris Johnson hanno selettivamente abbandonato il neoliberismo, in particolare il culto del libero scambio e il monetarismo dei loro predecessori. Si sono allontanati dall’imperativo di tenere i conti in regola e hanno fatto registrare a bilancio deficit enormi», scrive Gerbaudo nel suo articolo.
Ma più in generale, si legge su New Statesman, «i leader conservatori hanno selezionato le categorie da proteggere, e hanno scelto di dare priorità alle grandi imprese, ai proprietari di casa e ad altre categorie, lasciando in secondo piano le garanzie del mercato del lavoro».
Dalla parte opposta, l’offerta di protezione della politica progressista durante la pandemia è legata a doppio filo ai servizi pubblici e agli incentivi ai lavoratori che svolgono funzioni essenziali (come la salute e l’assistenza sociale). È qui che Joe Biden ha messo in luce la spinta più progressista della sua Amministrazione: nel suo piano infrastrutturale da due trilioni di dollari ha promesso 400 miliardi per l’assistenzialismo.
Le due versioni e visioni del protezionismo sono distanti, ma entrambe rispondono a un bisogno e a una domanda da parte delle persone, e quindi dei cittadini, e quindi dell’elettorato. Cercare di anticipare le tendenze politiche dei prossimi anni significa capire quale delle due proposte di protezione prevarrà.
«La battaglia per l’egemonia nell’era post-pandemica», è la conclusione dell’articolo di New Statesman, «dipenderà da quale narrativa di protezione è vista come più credibile. Adesso siamo tutti “protezionisti”. Ma, a meno che i progressisti non siano in grado di dimostrare che l’intervento statale può costruire un’economia più sicura ed equa, gli elettori si rivolgeranno in massa alla destra populista e al suo nazionalismo, come unica diga protettiva contro un mondo nel caos».