Cina, India e Stati Uniti sono i tre Paesi più popolosi del mondo e con le economie più grandi: insieme, rappresentano circa il 60 per cento dell’economia globale. Negli ultimi quattro anni sono stati protagonisti di una svolta autarchica che ha del paradossale: hanno cercato di migliorare il proprio status sulla scena globale chiudendosi al proprio interno e tentando la strada dell’autosufficienza.
Queste tre grandi potenze vengono infatti da una stagione di parziale ritiro dalla globalizzazione, con l’obiettivo di migliorare la propria sicurezza, la capacità innovativa, la stabilità interna e le prospettive economiche. È uno scenario completamente opposto rispetto a quello prospettato dopo la Guerra Fredda e gli anni Novanta, in cui si credeva che i Paesi sarebbero diventati naturalmente più interdipendenti, sotto tutti i punti di vista.
Durante l’Amministrazione di Donald Trump, gli Stati Uniti hanno invece instaurato una fase di “nazionalismo economico”, mentre la Cina di Xi Jinping e l’India di Narendra Modi parlavano di “autosufficienza”. Apparentemente ha funzionato: tutti e tre i Paesi hanno aumentato il loro Pil pro capite nell’ultimo decennio, riducendo la loro esposizione commerciale, misurata dal loro rapporto commercio/Pil.
«Questo modello di globalizzazione indica l’ascesa di una nuova autarchia che potrebbe prevalere tra queste principali economie per il prossimo decennio o più», si legge in un articolo su Foreign Affairs – l’autore è Scott Malcomson, che guida lo Strategic Insight Group ed è autore di “Splinternet: How Geopolitics and Commerce Are Fragmenting the World Wide Web”.
Queste tre grandi potenze economiche, in realtà, hanno già avuto nella loro storia dei trascorsi di relativo isolamento dai mercati mondiali. E non sono quindi proprio alle prime armi in questa svolta autarchica.
Gli Stati Uniti sono sempre stati importatori di capitale e lavoro ed esportatori di materie prime ma, a differenza degli Stati europei, la loro principale fonte di crescita è sempre stata il mercato interno: tra gli anni Sessante e il 2011 la quota di commercio con l’estero è cresciuta costantemente, per poi diminuire e poi crollare sotto Trump. E probabilmente proseguirà in questo trend anche con Joe Biden.
I leader cinesi hanno spesso avuto l’obiettivo dell’autosufficienza: ci riuscì l’Impero cinese tra la fine del XVII secolo e la metà del XIX secolo, ma con l’inizio della guerra dell’oppio, nel 1839, il Paese entrò in un “secolo di umiliazione” per mano di potenze straniere che sarebbe stato interrotto solo dall’arrivo di Mao Tse Tung. Nel 2018 il presidente Xi Jinping sosteneva che «l’unilateralismo e il protezionismo commerciale sono aumentati, costringendoci a percorrere la strada dell’autosufficienza».
E lo stesso discorso si ripete per l’India, che si è costruita una narrazione di Paese che può prosperare sulla forza del suo ampio mercato interno, con un controllo giudizioso delle esportazioni: l’India ha iniziato ad aprire la sua economia all’inizio degli anni Novanta e poi ha accolto la tecnologia e gli investimenti sia cinesi sia statunitensi. Adesso l’obiettivo di autosufficienza di Modi è raggiungere il livello di innovazione e autosufficienza autoctona della Cina.
In particolare, come si legge su Foreign Affairs, «Cina, India e Stati Uniti, con la recente svolta verso l’autarchia, stanno rispondendo alle nuove preoccupazioni sulla sicurezza che sono emerse con l’intensificarsi della competizione tra le maggiori potenze». Il capitolo sicurezza è infatti centrale per comprendere questa nuova stagione di ricerca dell’autosufficienza.
Nel 2015 Pechino ha annunciato una politica di “fusione civile-militare”, che ha esplicitamente inquadrato lo sviluppo nazionale-industriale come parte del piano della Cina per liberarsi dalla dipendenza da poteri esterni e garantire un futuro di autosufficienza tecnologica. E, di fronte alla modernizzazione militare della Cina e allo straordinario successo del suo settore tecnologico, gli Stati Uniti hanno iniziato a trovare allarmante la presenza della tecnologia cinese nelle supply chain della Difesa degli Stati Uniti e sono diventati sempre più sospettosi del ruolo della Cina nella costruzione di infrastrutture Internet in tutto il mondo.
Le preoccupazioni per la sicurezza stanno guidando sempre più spesso anche le politiche tecnologiche dell’India: il governo di Modi persegue quello che potrebbe essere definito “non allineamento digitale” (così come per anni l’India è stata “non allineata” politicamente). Dopo 20 anni in cui le società tecnologiche e i venture capitalist di Cina e Stati Uniti – e anche di altri Paesi occidentali – hanno costruito gran parte del settore tecnologico e delle infrastrutture dell’India, le aziende tecnologiche indiane hanno assorbito il know-how e le competenze, e il governo di Modi ha iniziato a gestire la presenza straniera – nel caso di quella cinese, addirittura a espellerla – con l’obiettivo di promuovere l’autosufficienza tecnologica dell’India e salvaguardare la sicurezza.
«Tutti e tre questi Paesi hanno trovato nell’autarchia una risposta valida alle crescenti preoccupazioni per la sicurezza, in parte a causa delle dimensioni delle loro economie. Hanno mercati interni abbastanza grandi da sostenere un’ampia diversificazione tra i settori senza sacrificare i vantaggi della specializzazione. In altre parole, per essere relativamente autosufficienti. Ma le dimensioni da sole non spiegano come questi Paesi siano riusciti a diventare meno dipendenti dal commercio mentre la maggior parte delle altre grandi economie ne sono diventate maggiormente dipendenti», scrive Scott Malcomson su Foreign Affairs.
In India e in Cina, la cultura, la politica industriale e altri fattori strutturali hanno ulteriormente facilitato una svolta autarchica. Entrambi i Paesi hanno mercati del lavoro molto ampi con alti livelli di mobilità e bassi livelli di organizzazione dei lavoratori. Hanno anche almeno due generazioni di lavoratori del settore dei servizi che credono che la loro prosperità dipenda dalla partecipazione a catene di valore globali, dall’acquisizione di proprietà intellettuale e dalla vendita di prodotti sul mercato interno.
Così i governi di entrambi i Paesi non solo proteggono le aziende nazionali dai concorrenti stranieri, ma lavorano anche per impedire alle aziende di monopolizzare determinati settori all’interno. In questo modo, preservano almeno alcuni dei vantaggi della concorrenza interna.
Il paradosso, però, è che Cina e India dipendono dall’economia digitale – connessa in rete – e globalizzata. Entrambe le economie sono profondamente legate alle catene del valore globali che hanno reso possibile la loro crescita: i loro primi motori di prosperità non sono stati gli enormi progetti industriali statali, ma un mondo interconnesso, sempre in rete, mescolato e sempre in competizione.
Eppure, come ha detto Xi Jinping in un discorso del luglio 2020 a Pechino, parlando agli imprenditori cinesi, «ciò che differenzia la Cina dagli altri Paesi è il suo grande mercato interno», che vuole rendere sostenibile, protetto e controllabile. E lo stesso vale anche per l’India di Modi.
Il quadro è un po’ diverso negli Stati Uniti, dove il nazionalismo economico è derivato meno da fattori culturali o strutturali e più dalla crescente insoddisfazione popolare per il neoliberismo. «Il “nazionalismo economico” di Trump si è manifestato principalmente sotto forma di tariffe dannose e guerre commerciali. Ma queste hanno rotto l’incantesimo della globalizzazione e a un prezzo apparentemente basso: la fiducia dei consumatori statunitensi ha raggiunto un massimo storico prima della pandemia, mentre la disoccupazione ha toccato un minimo del 3,5 per cento. La retribuzione media dei lavoratori è cresciuta del tre per cento all’anno nei primi tre anni di presidenza di Trump», scrive Foreign Affairs. L’apparente successo economico di Trump ha rafforzato l’idea che l’intervento del governo in economia sia valido: la stessa Amministrazione Biden ha sostenuto enormi investimenti per aumentare la capacità interna, in particolare nelle infrastrutture.
«Quanto durerà questa nuova era dell’autarchia dipende in parte dalla durata e dall’intensità della competizione tra le maggiori potenze. I governi dei “Tre Grandi” continueranno probabilmente a spingere per l’autosufficienza fintanto che ci sarà una maggiore concorrenza per la sicurezza, che nel caso di Stati Uniti e Cina, e di India e Cina, potrebbe essere molto lungo», dice Malcomson nel suo articolo, che però suggerisce un distinguo importante: «è probabile che le forze politiche rafforzino la tendenza verso il nazionalismo economico, ma le forze di mercato potrebbero agire nella direzione opposta».
Questo perché l’autarchia soffoca l’innovazione e, per estensione, la crescita a lungo termine. Le speranze dell’India per una crescita sostenuta dipendono dalle continue buone fortune del suo settore della tecnologia dell’informazione e dalla sua capacità di innovare. E anche la rivalità tra Cina e Stati Uniti è spinta dall’imperativo di innovare, nel senso che ognuno teme il sorpasso da parte dell’altro dal punto di vista tecnologico e quindi militare. Ma l’innovazione richiede spesso ingenti investimenti privati, e gli investimenti privati richiedono mercati.
È probabile quindi che la concorrenza diventi più rigida tra le società tecnologiche statunitensi e cinesi al di fuori dei loro mercati nazionali, con maggiori sforzi da parte dei due governi per esercitare un certo livello di controllo sulla tecnologia in funzione di sicurezza.
«Gli Stati Uniti», si legge su Foreign Affairs, «si concentreranno sulle nazioni alleate più ricche in Nord America, Europa e Asia. Cina e India si concentreranno sulle parti più povere dell’Asia, del Medio Oriente, dell’Africa e forse dell’America Latina. Se le aziende occidentali e dell’Estremo oriente trascurano quelle regioni, allora le società tecnologiche cinesi, indiane e altre società tecnologiche non occidentali daranno forma alla globalizzazione nell’era dell’autarchia. Questa nuova globalizzazione non sarà come la vecchia: si baserà tanto sull’autosufficienza quanto sull’apertura e sostituirà l’internazionalismo con il nazionalismo, il mercantilismo e qualcosa che si avvicina all’imperialismo».
Un mondo del genere non sarebbe necessariamente più pericoloso. L’autarchia delle grandi potenze è, dopotutto, principalmente difensiva e potrebbe portare al conservatorismo militare e alla concorrenza industriale a vantaggio di tutti. Ma alcuni pericoli ci sono. Ad esempio le maggiori potenze potrebbero tentare di bloccare l’accesso alle risorse dei loro concorrenti, come la Cina ha ripetutamente minacciato di fare con i metalli delle terre rare necessari per molti prodotti high-tech. Oppure potrebbero tentare di accumulare proprietà intellettuale o di impedire la diffusione tecnologica, ampliando continuamente la definizione di “risorse strategiche” per includere – per fare un esempio molto attuale – tutto ciò che ha a che fare con la progettazione di chip di intelligenza artificiale.
Lo storico americano George Louis Beer scrisse nel 1917 che «l’autosufficienza economica contempla uno stato di guerra». Oggi forse la diffusione e la frammentazione della produzione globale ha reso molto meno probabile conflitti per questi motivi. Ma le grandi potenze che bramano maggiore autonomia dovrebbero stare attente a ciò che desiderano: l’autosufficienza può essere una fonte di debolezza oltre che di forza.