Metodo-Figliuolo o se volete metodo-Belloni in Rai. Non è un sogno. Nell’éra di Draghi è possibile. Dopo la cacciata di Gennaro Vecchione (amico di Giuseppe Conte) dal Dis e prima ancora quella di Domenico Arcuri (amico di Massimo D’Alema) dal commissariato per la lotta al Covid – per non dire del comico Mimmo Parisi, amico di Luigi di Maio e rispedito back to Mississippi – toccherà presto all’ineffabile presidente della Rai Marcello Foa, amico di Matteo Salvini, fare le valigie: l’importante non è solo che lui se ne vada ma che che possa iniziare quella nuova stagione a viale Mazzini che si aspetta da sempre, una stagione nella quale siano premiate le professionalità e non le amicizie politiche. Utopia, si dirà. Ma se non ora quando?
Perché c’è un fatto nuovo che consente di sperare: Draghi, cioè l’uomo che si sta mostrando tranquillamente in grado di infischiarsene delle convulsioni dei partiti e delle loro partite a flipper, e probabilmente l’unico capace di sanificare i meandri intossicati di viale Mazzini.
Se non ce la fa lui non ce la può fare nessuno. Probabile che il presidente del Consiglio, che pure è – come detto – politicamente fortissimo, più di ogni altro suo recente predecessore, non riuscirà a fare della Rai il “villaggio di vetro” immaginato da Walter Veltroni in un lontanissimo convegno del 1987 (35 anni fa!) ma almeno lui e il ministro per l’Economia Daniele Franco stanno già pensando a come costruire una governance degna di questo nome. Senza passare per le forche caudine partitiche.
Non ha chiesto a nessuno se potesse mandare a casa Arcuri per far posto a Figliuolo, e lo stesso dicasi per la sostituzione di Vecchione con Belloni: il presidente del Consiglio si dà carta bianca e sta cercando soluzioni – come si dice delle persone non lottizzate – di alto profilo.
È infatti in corso una “procedura selettiva” per le due figure apicali, ovvero il Presidente e l’Amministratore Delegato della Rai di cui è stata incaricata la società specializzata Egon Zehnder, “cacciatori di teste” che dovrebbero incontrare in questi giorni alcuni potenziali candidati, sia interni alla Rai sia esterni.
Non se ne sa molto ma, secondo alcune fonti, Mario Draghi vorrebbe puntare su una figura molto competente come Amministratore Delegato, un professionista in grado di mettere ordine nei conti dell’azienda al riparo da pressioni di qualsiasi tipo.
Insomma, un Draghi per la Rai, un esperto di conti che conosca un’azienda che si avvia ad avere i conti in rosso per circa 750 milioni: un nome che ha preso a circolare è quello di Raffaele Agrusti, già collaboratore dell’ex dg Antonio Campo Dall’Orto ed ex dirigente di Generali; mentre per la presidenza si penserebbe a una donna, forse un’intellettuale di prestigio, chiaramente al di sopra delle parti e beneficiaria di stima generale.
Draghi insomma ha tutte le condizioni per aprire il dopo Foa-Salini, il tandem nominato nella stagione gialloverde (2018) e giunto dunque a scadenza naturale senza un alito di rimpianto da parte di nessuno, anche perché i risultati sono molto discutibili sia dal punto di vista della qualità del prodotto generale (informativo in particolare) che da quello finanziario, ed è destinato a passare alla storia come la coppia maggiormente supina agli interessi dei due partiti di riferimento – Lega per Foa, Movimento cinque stelle per Salini – persino peggio della Rai berlusconiana o quella del pentapartito.
Inutile e troppo lungo sarebbe l’elenco di scelte sbagliate, occasioni perdute, episodi di servilismo. Alla fine persino il pubblico si è stancato. Come ha scritto Paolo Festuccia sulla Stampa – facendo arrabbiare Salini – Rai Uno ha perso in sei mesi 3,5 punti di share e Rai Due addirittura l’11,7.
Da parte sua, in una surreale intervista al Corriere della Sera, il presidente Foa, che deve tutto all’amicizia con la Lega di Salvini, ha chiesto che «la politica non condizioni la Rai».
Proprio lui, chiacchierato cantore del sovranismo putinian-salviniano: «I sovranisti avevano ragione – scriveva per esempio nel giugno del 2018 – e non c’è insulto che riuscirà a fermarci, per una ragione tanto semplice quanto inaspettata: gli elettori stanno distruggendo scheda dopo scheda quel costrutto neoglobalista e transnazionale che anni di incessante propaganda hanno tentato di trasformare in un Destino ineludibile». Qualche settimana dopo l’alato scritto, il Foa venne nominato presidente della Rai.
Adesso bisogna capire se i partiti saranno davvero disposti a fare un passo indietro, seppure obtorto collo.
Probabile che i medesimi partiti, che non sono scemi, non intendano fare da spettatori, non foss’altro perché quattro consiglieri saranno nominati dal Parlamento (a scrutinio segreto!), ed ecco dunque che già si ipotizzano accordi e disaccordi sui nomi.
Ma intanto c’è da far sloggiare il tandem gialloverde dal settimo piano di viale Mazzini giacché molti sospettando che Foa e Salini vogliano tirarla per le lunghe, per esempio stiracchiando i tempi della approvazione definitiva del bilancio che è stato sì approvato dal Cda ma ha bisogno dell’imprimatur dell’Assemblea dei soci di cui il deputato di Italia viva Michele Anzaldi, instancabile spina nel fianco dei capi del servizio pubblico, reclama la convocazione, spalleggiato (e non è che accada sempre) dal segretario dell’Usigrai Vittorio Di Trapani.
Mentre il deputato democratico Andrea Romano, membro della Commissione parlamentare di Vigilanza, trova che sia «un pretesto» per allungare il brodo il fatto che «il Cda scaduto si occupi dei palinsesti autunnali del servizio pubblico».
Per Mario Draghi potrebbe essere la grande occasione per far capire ai partiti che anche a Viale Mazzini l’aria è cambiata.