La notte è un dirigibileUn sabato italiano fuori dal tempo ci fece capire che il peggio era passato

Sergio Caputo trasforma le parole in strip metropolitane spiritose, molto visuali, mai banali né scontate: la maestrìa nel creare vignette, di danzare sulle parole, rende tutto leggero, ironico, cool. I testi hanno metriche deliziose, sono pieni di citazioni pop, e quell’inevitabile velo di cinismo di uno che vive troppo in fretta è mitigato da una immancabile dose di illusione romantica. Read & Listen

Sergio Caputo

Premessa: il 12 maggio 2021 Mister Fantasy compie 40 anni. Quale album migliore per celebrarlo di quello lanciato con i video prodotti da noi?

Un album molto singolare se ce n’è uno: fuori del suo tempo musicalmente, ma in sincrono perfetto con l’atmosfera e la voglia di bersi il mondo degli anni 80. Il suo autore un ragazzo di 29 anni, di giorno art director in una multinazionale dell’advertising e di notte vagabondo della scena notturna romana, patito del jazz e assatanato di avventure e di alcool. 

A pensarci bene, però, se a questo cocktail di ingredienti dai la giusta shakerata, tutto prende senso e va giù in un sorso: le avventure notturne di Sergio Caputo sono autobiografia, le sue scorribande col fido Riccardo ’Rino’ Rinetti, amico e produttore, sono diari di vita. La sua abilità con le parole li trasforma in strip metropolitane spiritose, molto visuali, mai banali né scontate: la maestrìa nel creare vignette, di danzare sulle parole, rende tutto leggero, ironico, cool. I testi hanno metriche deliziose, sono pieni di citazioni pop, e quell’inevitabile velo di cinismo di uno che vive troppo in fretta è mitigato da una immancabile dose di illusione romantica. 

«Facevo una vita talmente sregolata che non pensavo neanche di arrivare a 35. Ero molto selvatico, bere, sostanze. Avevo preso la vita così, non mi vedevo vecchio, non pensavo che sarei sopravvissuto. La musica mi aiutava anche a fare il pubblicitario, perché i miei colleghi era gente che si frequentava fra loro, spesso a casa, delle cose ne sentivano parlare. Io invece da musicista ero sempre in giro, vedevo persone diverse, come si vestivano, osservavo i trend, i linguaggi. Ascoltavo di prima mano la musica nuova, che non era neanche ancora uscita in Italia. Le due cose insieme mi davano allora, e ancora mi danno, una visione più smaliziata delle news, per esempio: capisco i meccanismi, scompongo le frasi, guardo il messaggio finale e capisco come è stato costruito»

Ultimo ingrediente, quel suono un po’ demodè ma di gran classe: Sergio ascolta come tutti noi il rock di quegli anni, ma è innamorato del jazz, dell’era delle big bands, di quel sapore elegante e fascinoso dello swing. Quindi, se aggiungete a tutto il resto anche questo personalissimo e originale pop-jazz, le drink c’est chic.

Serve un buon bancone da bar o un palcoscenico da dove lanciarsi. E cosa meglio del programma più cool della tv, in quel momento in cui in quell’Italia degli anni 80 tutto era moda, un friccicore di nuove opportunità, lo stile diventava forma e sostanza? C’era voglia di nuovo nell’aria, e Sergio era il personaggio perfetto per il Mister Fantasy della musica da vedere e delle creature della notte.

Paolo Giaccio, non c’è più bisogno che aggiunga quanto ha contato nella vita di tutti noi, conosce Sergio già da un paio d’anni, con il suo EP-4-pezzi è già stato ospite, senza lasciare grande traccia, con un video da capellone e l’altro coi capelli corti perché nel frattempo l’avevano chiamato alla visita militare. Ricordo solo che per presentare Sergio feci una gag con Vecchioni, tipo «Roberto, lasciamo spazio al giovane Caputo» spingendolo via su una sedia da ufficio con le rotelle, «probabilmente da quel momento mi ha detestato».

Paolo ascolta i provini di queste canzoni, ne intuisce il potenziale, va alla CGD da due grandi discografici di allora, Guido Crepax e Alfredo Cerruti, e gli dice «se voi fate il disco, noi faremo otto video». Leggenda vuole che l’accordo venga fatto senza che i discografici abbiano sentito una sola nota. I video di Mister Fantasy, tutti in fila nella primavera dell’83, a dir la verità sono meno colorati e avventurosi delle storie cantate. Questione di budget. Il regista deputato, compagno d’affitto e di avventure, Dante Majorana, avrebbe voluto un’orchestra e cento comparse e il prestigioso Vittorio Storaro alla fotografia, il risultato finale è che a disposizione hanno una quindicina di amici travestiti a la page fra punk e dandy e una band di finti musicisti (altri amici) con sax e chitarre di plexiglas. Molto post-moderno, in verità. Un tendone arredato a ipotetico night come ambiente, Sergio, volto da cucciolo tentatore a cantare al microfono con asta, un po’ di ballerine a far coreografia («ho passato il tempo a chiedermi quale rimorchiare a fine serata»), comparse con cotonature in puro eighties che ora sarebbero da arresto. il successo è clamoroso. Effetti stroboscopici del destino. Dritto in classifica. Che botta!

Nel giro di qualche settimana la vita di Sergio cambia, e lui non è molto preparato al successo istantaneo. Quando va al supermercato sente ’Un Sabato Italiano’ nell’impianto e già gli suona strano, dei ragazzi lo riconoscono e si nasconde sotto un banco frigo perché non sa che fare. Imparerà presto. Soprattutto i vantaggi per gli approcci sentimentali. Del resto, Sergio uno che impara veloce lo è: il suo ingresso alla McCann-Erikson, una delle Agenzie top nel mondo della pubblicità, se l’è guadagnato trovandosi per un colloquio nella loro sede durante un’emergenza di consegna, lavorando di notte (non un problema per lui, ca va sans dire) quella sera e anche le successive, fino a essere assunto. Avere una spiccata sintonia con le immagini, e l’essere bravo a disegnare -cosa che ha fatto fin da bambino, poster e depliant, vignette e manifesti- suppongo abbia aiutato.

La vita d’agenzia ha i suoi ritmi senza orari, chi ha visto ’Mad Men’ lo sa: alle nove di mattina in Vespa in ufficio «a lavorare su campagne pubblicitarie più grosse di me», alle 5 di pomeriggio a casa, con dormitina. La sera, in un’ora variabile fra le nove e mezza e le undici, l’immancabile suonata al citofono e ripartenza. In caccia di musica e di avventure, una ricerca senza fine fra bar e nightclub, birre whisky e altri drink assortiti, donne da abbordare e da cui cercare di farsi abbordare, scorribande in cerca di «grandi imprese e amori fallimentari», lui e Rino «assi del mordi e fuggi in circostanze particolari». Ricerca che a volte si conclude brillantemente altre volte meno e, in questo caso, si finisce dai cornettai all’alba (un classico romano). E per concludere la fatidica frase: ’oh, domani niente, eh. Domani stiamo a casa’, che dura, appunto, fino alle undici di notte del giorno dopo.  

La Roma notturna di quegli anni è quella di Renato Nicolini, l’assessore alla cultura che spinge la città fuori della cappa degli anni di piombo inventandosi ’l’estate romana’, definizione che non vuol dire molto ma ancora oggi fa spuntare i lucciconi agli habituè di quelle notti passate fra cinema all’aperto al Circo Massimo e rassegne cinematografiche un po’ ovunque, da Ostia a Castel S. Angelo, musica dal vivo sul Tevere, al Testaccio e nei tanti club aperti fino all’alba. Il pendolo che, dopo gli anni di piombo, swinga allegramente dall’altra parte.

«Così ci avventuriamo nella Roma felliniana 
Equilibristi in bilico sul fine settimana 
E sulle immagini di sempre nei discorsi e nei pensieri 
Dilaga anacronistica la musica di ieri…»

Che è il jazz, ovviamente. In quegli anni, Sergio frequenta il Folkstudio, aspettando lo sgombro dei cantautori e l’arrivo dei jazzisti, e poi ci sono i club di jazz che a Roma abbondano: il Murales, il Fonclea, il Blu House dove ogni sera in jam session trovi personaggi come Tony Scott ma anche tutta la nuova scena jazz italiana: Enrico Pieranunzi e Massimo Urbani, Patrizia Scascitelli e Rita Marcotulli, Roberto Gatto, Danilo Rea, Enzo Pietropaoli. Al Music Inn, il vero tempio del jazz a Roma, suonano solo i grandi nomi internazionali che si trovano in tour europeo, e solo di tanto in tanto quelli nostrani. La passione di Caputo è quella: Parker e Coltrane ma soprattutto Cole Porter e Fats Waller, le orchestre alla Glenn Miller, Count Basie e Duke Ellington, ma anche Xavier Cougat e l’Orchestra della RAI, big bands raffinate che suonano nello stereo dell’auto, affettuosamente chiamata Zia Wally. Sergio si chiede perché di jazz ce ne sia tanto in giro, ma per lo più standard, perchè quante versioni potrai mai fare di ’My Funny Valentine’ o ’My Favorite Things’? L’idea è quella di usare una ritmica swing e melodie pop, canzoni che abbiano «uno sviluppo armonico e melodico di tipo jazzistico, ma siano concise e dritte al punto, strofa-strofa-bridge-inciso come succede nelle canzoni pop. Jazz con una struttura pop». 

Qualcosa in giro con questo taglio c’è: Joe Jackson nell’81 ha pubblicato ’Jumpin’ Jive’, un disco di cover famose in stile jump blues, il jazz da anni 40 ritmico, ballabile, da divertimento in pista e all’ascolto, nella vena originale di Cab Colloway e Louis Jordan. Ma non sono suoi i brani. O magari gli album dei Manhattan Transfer di “Extensions” e “Mecca For Moderns”, con vocalità e arrangiamenti jazz accessibili a un pubblico più vasto. Il nostro, ancora indiviso fra advertising e musica, pensa che inseguendo quello che ti piace non sbagli mai, se va male c’è sempre quel posto di promettente art director. Situazione win-win, come dicono gli addetti ai lavori, vincente comunque. 

Sergio in questa vita vissuta a tentoni, senza programmi, butta giù accordi e motivi che gli suonano bene, e i pensieri, i flash, le stranezze che incontra li scrive spesso su pezzettini di carta volante, frammenti di futuri puzzle indecifrabili, se scritti in evidente stato di alterazione alcolica. Se ha delle idee musicali mentre sta in giro, telefona a casa e lascia in segreteria messaggi cantati. La cosa diventa complicata quando, al ristorante o magari in RAI, gettone in mano, deve stare in piedi con tutti che lo guardano mentre si mette a cantare con una certa nonchalance nella cornetta.

Altre volte si parte da un giro armonico tipico di un brano alla Fats Waller trovando realizzazione in una notte smemorata. Nel suo libro del 30ennale di ’Un Sabato Italiano’, divertente e sincero ritratto degli anni che portano all’Lp, narra la nascita della title-track:  «È una sera di un sabato qualunque, di quelle che abbiamo deciso di non uscire perché tanto in giro c’è troppo casino. Sono solo nella mia stanza, ho in mano la chitarra e sto strimpellando distrattamente un pezzo ancora senza parole che ho scritto giorni fa, un pezzo un po’ malinconico, ma di quella malinconia che fa stare bene e svuota la mente dai brutti pensieri. Provo a concentrarmi ma non c’è niente da fare, sù dal cortile arriva un miagolio insistente, fastidioso, sembra che tutti i gatti del quartiere si siano dati appuntamento qui sotto stasera per non farmi scrivere questa canzone. Mi affaccio alla finestra, è una sera piovosa che sembra inverno, c’è qualche finestra illuminata e una radio che sputa fuori musicaccia commerciale. Resto lì a soffiare nuvolette di fumo che si perdono nel cielo scuro… “Il fetido cortile ricomincia a miagolare”, declamo in tono teatrale alla Vittorio Gassman, e mi accorgo che la metrica è proprio quella del pezzo che sto strimpellando. Così vado avanti, e mi ritrovo un’ora dopo che ho riempito sette pagine del mio notebook con dei versi, ma sul più bello suona il citofono: ’saliamo noi, o scendi te?.  

Il giorno dopo mi sveglio tardi, troppo tardi per andare dai miei. Devo chiamarli, ammesso che riesca a raggiungere il telefono. Bocca impastata. Mi gira la testa. Accendo subito una sigaretta e cerco di riappiccicare fra loro frammenti di memoria della notte appena passata, come fossero i pezzi di uno specchio rotto. Non ho idea di come sia riuscito a tornare a casa. Devo aver fatto tardi, tardissimo, c’è un bicchiere con dentro un dito di whisky, mozziconi puzzolenti di sigaretta e in giro pezzi di carta appallottolati. Dante è di là, sento un ridacchiare sommesso, e c’è anche una voce di donna che non conosco. Vedo che ho usato il registratorino a pile, la mia chitarra è buttata lì accanto al letto e il blocchetto di appunti è pieno di scarabocchi nuovi, la mia scrittura quasi illeggibile… Sbuffando, mando il nastro un po’ indietro e schiaccio play, preparato a sentire grugniti da ubriaco e mugugni incomprensibili. ’Un Sabato Italiano’ è lì, praticamente fatta, dall’inizio alla fine, compreso il riff di fiati»: 

«Il fetido cortile ricomincia a miagolare 
L’umore quello tipico del sabato invernale 
La radio mi pugnala con il festival dei fiori 
Un angelo al citofono mi dice vieni fuori 

Giù in strada per fortuna sono ancora tutti vivi 
L’oroscopo pronostica sviluppi decisivi 
Guidiamo allegramente è quasi l’ora delle streghe 
C’è un’aria formidabile le stelle sono accese 
E sembra un sabato qualunque un sabato italiano 
Il peggio sembra essere passato 
La notte è un dirigibile che ci porta via lontano». 

Quando chiama Rino e gliela strimpella al telefono, l’amico si commuove, sognava di poterla un giorno sentire finita, perfetta: «Non l’aspettavo, non l’avevo mai neppure immaginata, eppure la riconosco: è lei, la canzone che ho sempre sognato, la donna ideale. Mi sento come un padre che riconosce suo figlio appena nato… di più, come una mamma che lo sente sul petto la prima volta, bagnato, vivo, e non lo vuole lasciare e, allo stesso tempo, lo immagina già camminare da solo».

L’album, più che camminare, comincia a correre da solo, e da subito. Gran parte del merito è quell’inizio fulminante, allegro come una sbronza che si dissolve, orecchiabilità estrema, metrica irresistibile, dedicata – unica eccezione – a una bevanda analcolica: «Giro sconsolato per casa schioccando le dita a tempo e guardando dappertutto, come se il testo fosse già scritto su un foglietto da qualche parte e non ricordassi dove l’ho messo. Vado in cucina, apro il frigo, ci sono degli spaghetti del pranzo di ieri, me n’ero dimenticato, stasera posso riscaldarli, torno in camera mia, do un’occhiata in bagno. Torno in cucina, apro la piccola credenza dove teniamo i medicinali e altre cazzate. Eccola lì, la mia amica d’infanzia, la Citrosodina granulare… mia madre me la dava sempre anche quando non ne avevo bisogno, e io la prendevo volentieri perché era frizzante e sembrava una bibita. E anche adesso che vivo da solo devo sempre averne un barattolo in casa, che non apro, ma mi piace avere lì. Citrosodina. Ciii-tro-so-dii-na. Ci-tro-so-di-na-gra-nu-la-re. Bevo per… Bevo peeeer…. be-vo-per-di-men-ti-caaa-re-il-mal-di-maaaaare..viii…viii…viscerale..snap, snap, snap, tum tum tum tum….»: 

«Citrosodina granulare bevo per dimenticare
Il mal di mare viscerale che questo mondo mi dà
Respirazione artificiale per resuscitare il vecchio buon umore
Fai il favore, non criticarmi perché
È sempre più difficile tirare avanti questo show
Mi fanno male i piedi a furia di ballare
Un pediluvio nel tuo cuore mi concederò…»

Quando il disco è già stampato e Rino prepara vari formati della Citrosodina come gadget per accompagnarlo, qualcuno pensa bene di farla, una telefonata, giusto per vedere se c’è qualche problema: «Per noi no», gli rispondono, «anzi grazie per la pubblicità, ma andrebbe precisato che è un medicinale, seguite le avvertenze». Non è solo una questione di metrica: «Se ci fanno una multa, ci dovremo rifare su di voi». Panico. A Sergio chiedono di cambiarla, per cui solo le prime 5mila copie conterranno ’l’originale’, sostituita nelle successive da ’Idrofobina vegetale’, che non vuol dire nulla, ma è l’unica cosa che gli viene in mente. Nel tempo il titolo diventerà ’Bimba Se Sapessi’:

«Bimba se sapessi che monotonia
Tutte quelle balle sulla fantasia
Guarda che mestiere che mi tocca fare
Io con questa faccia e il mio passato da dimenticare…»

Ce ne sono tante che in quegli anni uscivano spesso dalla radio, tutte con livello di orecchiabilità pericolosa, a turno te le canteresti tutte: ’E Le Bionde sono Tinte’, ’Cimici e Bromuro’ (la storia della sua visita alla naja), ’Mercy Bocù’, ’Weekend’, ’Night’, ’Spicchio di Luna’. C’è ’Mettimi Giù’, ispirazione guardando la bella bionda Fay Wray nella manona del primo King Kong, quello in b/n del ’33, con quel gioco di parole fra i tanti significati del ’mettere giù’: ’mettimi giù due righe’, o ’uno schizzo’, o ’due conti’, o ’due accordi’. E infine, c’è naturalmente ’Io e Rino’, un ragtime che narra le gesta dei due complici vittime di un complotto finanziato dalla notte oscura/ con la banda dei cuori infranti che ci fa premura”: con Rino, quello che faceva il cast al Folkstudio, che lo chiamava a suonare la domenica pomeriggio quando il patron Cesaroni a cui stava antipatico non c’era, non era partita benissimo. Ma sarebbero diventati inseparabili, nella vita e nel lavoro:

«Io e Rino, Grandi Imprese & Amori Fallimentari
Assi del “mordi e fuggi” in circostanze particolari
Persi nella metropoli effetto notte americana
Ammazziamo la solitudine, affascinati dal panorama

E una birra di qua e una birra di là e la sera se ne va
E pensiamo: “Di noi che sarà?”
Se la gente di qui si avvilisce così e ci tratta da ragazzini
È perché alla TV non guarda i film su New York City»

New York City….Di mitologia americana c’è n’è tanta, in questo disco e nell’immaginario di Caputo, da Charles Bukowski e i poeti beat alla sofisticata musica di Cole Porter e George Gershwin. C’è tanto cinema, di quello pieno di angeli dalla faccia sporca. C’è il Tom Waits di ’The Heart of Saturday Night’, quello degli inizi cantautorali che cominciavano a vestirsi di jazz, coi suoi personaggi sfigati e perdenti, intrappolati nel lato dark della Hollywood minore. Ma Trastevere non è West Hollywood, la voce di Sergio è ironica e da crooner e non un rauco grugnito (per quanto romantico), e il sabato notte italiano non è quello della città degli angeli caduti. 

Sergio (fortunatamente) è sè stesso, spiritoso e autoironico, spesso colpito ma non affondato, diverso da tutti e figlio del suo tempo.  Come nella copertina, un sipario che si apre su un Gran Cafè (a Piazza Adriano, di fianco al teatro dove suonarono i Beatles quando Sergio aveva un anno), e la maglietta ’Frankie Goes to Hollywood’, il titolo di giornale che celebrava l’andata a Hollywood del (in quel momento) idolo delle bobbysox, le teenagers, Frank Sinatra. Con la grafica di Mister Fantasy, e un ciuffo vero anni 80. 

(Quasi) quarant’anni dopo, Sergio Caputo ha di molto vissuto, di molto suonato e di molto viaggiato. Fino a vivere tanti anni nella mecca della sua gioventù, la San Francisco dei beat e del faro culturale Lawrence Ferlinghetti, visitato nella sua libreria City Lights Bookstore. Ha suonato e inciso nei due continenti, pubblicato album strumentali di soft jazz, e altro che ’non so se arriverò ai 35’, ha tre bambini piccoli e il suo piacere ora – tour a parte – è di non uscire di casa la sera. La Citrosodina granulare, a proposito, la tiene sempre nell’armadio. Chiusa, ma non si sa mai.

73 (continua). Qui le altre puntate.

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