Nel ventottesimo anniversario delle monetine del Raphael (30 aprile 1993), abbiamo scoperto che l’atto di nascita della Repubblica del linciaggio e di morte della Repubblica dei partiti è una ricorrenza che ancora appassiona e tormenta le vittime sopravvissute alla mattanza dei processi o dell’età, nonché pochi osservatori interessati a quegli eventi lontani. Non eccita invece più e neppure interessa gli eredi di quell’Italia, che scoprì nel giustizialismo la forma più comoda e sofisticata di trasformismo.
Il reducismo di Tangentopoli è il tormento dei perdenti e dei loro amici, non l’orgoglio dei vincenti di quella partita fatale e dei loro successori antipolitici, arrivati nei palazzi del potere sventolando metaforicamente (e non solo) cappi e manette e intonando il ritornello dell’onestà.
Però una lettura storica dei fatti che precedettero l’arresto del “mariuolo” Mario Chiesa e che lo seguirono come una valanga che travolse tutto, mietendo vittime ovunque, dovrebbe consigliare anche ai più affezionati alfieri della battaglia anti-giustizialista di non identificare il collasso della Prima Repubblica, cioè il default politico e finanziario del sistema partitocratico, come l’esito di una congiura o di un disegno teleguidato, magari, come piace sempre pensare, dall’estero o come la vendetta dei comunisti puniti dalla storia.
I problemi di legittimazione e di efficienza dei partiti primo-repubblicani erano già emersi con chiarezza nei referendum elettorali, che furono un modo meccanico e forse troppo “costruttivista” per propiziare un rinnovamento politico ritenuto comunque diffusamente necessario. La democrazia italiana non mancava solo di meccanismi decidenti, come usava dire ai tempi, ma proprio di un’inclinazione e di una disponibilità governante, essendo considerato il governo un mezzo di consenso, e non viceversa. Lascito, questo, che quasi tutta la politica secondo-repubblicana, con poche eccezioni, ha onorato o proseguito scrupolosamente, con i risultati impietosi che vediamo.
Anche se il sismografo elettorale tardò a registrare i problemi di stabilità del sistema dei partiti – ancora quelle del 1992 sembrarono quasi elezioni “normali”, a parte il boom della Lega – l’Italia era ormai un Paese oltre l’orlo del precipizio, una democrazia di scambio fondata su uno “schema Ponzi” permanente, che aveva visto praticamente raddoppiare il debito in dodici anni, dal 56% del 1980 al quasi 106% del 1992, trainato dal deficit per più di un decennio in doppia cifra, tra il 10 e il 12% del Pil e necessario a pagare un favore popolare sempre più volubile ed esoso.
Quando nel 1991 l’Italia entrò nell’accordo di Maastricht sulla moneta unica non c’era praticamente nessuno che avesse la più vaga idea di come raddrizzare il cammino di un Paese, che procedeva inesorabilmente in direzione uguale e contraria a quella del percorso di unificazione monetaria. Non che non si sapesse cosa era necessario, ma non si capiva come renderlo democraticamente possibile in un mercato politico drogato come quello italiano.
L’Italia era un Paese alla deriva, in cui una politica sempre più impotente, alienata e proterva campava alla giornata, dilatando e occupando il settore pubblico e traendone una rendita, legale o illegale poco importa, sproporzionata e parassitaria. Pochi mesi dopo l’inizio ufficiale di Tangentopoli, il governo Amato annunciava infatti, in maniera dolorosa e con una finanziaria monstre, che la pacchia era finita.
Se è vero che Tangentopoli non è stata la lotta tra il Paese sano e il Paese malato, ma la guerra di potere senza esclusione di colpi tra i vincenti e i perdenti della partitocrazia italiana e che l’esercizio del potere inquirente è divenuto allora una forma surrogatoria ed eversiva di rappresentanza politica, è altrettanto vero che i partiti condannati al governo dal Fattore K erano diventati davvero meri rentier della nostra democrazia bloccata; non peggiori, ma neppure migliori di quelli che ebbero la fortuna di sedersi dal lato giusto della storia (le opposizioni di destra e di sinistra), pur condividendo con i primi l’idea che la democrazia fosse (e in Italia non potesse che essere) un modo per comprare i voti degli elettori di oggi con i soldi degli elettori di domani.
Prassi che comprendeva ovviamente anche l’acquisto di tessere e di preferenze, che implicava l’esigenza di ampie riserve di quattrini, di qualunque provenienza e che portò a una libanizzazione dei partiti non meno tribale di quella che il populismo giudiziario inaugurò in tutti i settori della società italiana.
Se è falsa la verità ufficiale su Tangentopoli come processo politico di rivolta al malaffare e come progetto di moralizzazione civile, non è certo vera la verità di comodo sulla storia politica italiana precedente l’inizio del terrore come un’età dell’oro, lordata e poi spazzata via dall’arrivo della barbarie giustizialista.
Insomma, con tutto l’orrore che il dipietrismo nelle sue evoluzioni e reincarnazioni politiche può suscitare in chi abbia un’idea civile della giustizia penale e con tutta la ripugnanza che si può provare per gli abusi esibizionistici, che pubblici ministeri beniamini del popolo commettevano contro i diritti di imputati considerati – in quanto politici – privi di diritti e di dignità, la Prima Repubblica era già morta quando le piazze e le procure si impegnarono a oltraggiarne indegnamente il cadavere. Ed era morta non ammazzata, ma suicida.