Ogni tanto anche l’Italia fa scuola in Europa, per così dire. È il caso della cassa integrazione, che alcuni Paesi come Grecia, Regno Unito e altri dell’Est hanno introdotto per la prima volta in occasione della crisi pandemica allo scopo di evitare una crisi occupazionale eccessivamente massiccia.
Non è però il caso del blocco dei licenziamenti, che solo l’Italia dal febbraio del 2020 ha applicato in modo così generalizzato, vietando i licenziamenti economici. Anche Spagna e Grecia, che hanno varato provvedimenti simili, hanno limitato la loro applicazione.
In Spagna la pandemia non può essere utilizzata come giustificazione del licenziamento e prima di congedare un dipendente devono essere usati tutti i sostegni messi a disposizione delle aziende. In Grecia sono stati vietati solo i licenziamenti nelle imprese la cui attività è stata bloccata per le restrizioni imposte dal governo.
E, proprio come una volta, avere alcune delle regole più rigide nell’ambito del mercato del lavoro (vedi articolo 18, ma non solo) non ha risparmiato al Paese tristi primati come un tasso di occupazione tra i più bassi del Continente, anzi forse aveva contribuito. Allo stesso modo anche ora questo blocco non pare avere sortito grandi effetti se la proporzione di italiani che ha conservato il lavoro anche durante la pandemia risulta continuare a essere minore della media europea.
Se non era questo l’obiettivo principale della misura, quale era allora? Anche volendo escludere da ogni analisi il trimestre della massima emergenza (il secondo) quello che risulta evidente è che la percentuale di quanti sono rimasti in una situazione di occupazione è stata nel terzo e nel quarto trimestre del 95,8% e del 96%, meno del 96,2% europeo, con una differenza sostanzialmente inesistente rispetto a quella già presente negli anni scorsi.
Così la Spagna ha continuato a essere, tra quelli principali, il Paese con la situazione occupazionale più instabile.
Dati Eurostat, dati per trimestre
È un dato che va guardato anche alla luce della quota di italiani occupati sul totale della potenziale forza lavoro.
A fine 2019, prima della crisi, era solo del 51,7%, di cui solo il 2% avevano recentemente trovato lavoro. Molto poco rispetto al 68,9% olandese, al 67,4% inglese, ma anche al 56% spagnolo.
Ci si sarebbe potuti aspettare, guardando solo ai numeri, che essendo il bacino dei lavoratori già così limitato potesse essere più resistente, con meno emorragie in caso di crisi.
Dati Eurostat
Non è stato così soprattutto a causa dell’alta percentuale di quanti sono transitati dal novero degli occupati a quello degli inattivi. Si è trattato del 2,8% e 2,7% dei lavoratori negli ultimi due trimestri del 2020, più della media europea del 2,3%.
Come sappiamo ormai bene da tempo, la destinazione principale di coloro che perdono il lavoro in Italia non è la disoccupazione, ma l’inattività. In particolare durante le crisi.
È una caratteristica peculiare del nostro Paese che il blocco dei licenziamenti non è riuscito a scalfire.
Del resto anche tra i disoccupati stessi la quota di quanti rinunciano a cercare un impiego è sempre stata anomala nel contesto europeo, ampiamente superiore al 30%, superando il 40% nei momenti peggiori dello scorso anno.
Dati Eurostat, dati per trimestre
Solo per questo, invece, la percentuale degli occupati scivolati nella disoccupazione è stata nel 2020 uguale o leggermente inferiore a quella europea, intorno all’1,4%.
D’altronde si cerca un lavoro soprattutto quando ci sono speranze di trovarlo, e il 2020 è stato naturalmente un anno di crisi anche dal lato dell’entrata nel mondo del mondo del lavoro. Con in più il blocco dei licenziamenti che non ha indotto molti ad assumere, neanche nei mesi di pausa dalla pandemia.
Le attivazioni di contratti sono crollate, e non sono ancora riprese finora. Nei primi quattro mesi del 2021 erano allo stesso livello dell’anno precedente, poco più di 1,4 milioni, e 700 mila meno che nel 2019.
La realtà è che il blocco dei licenziamenti alla fine non ha salvato il mondo del lavoro, tantomeno è riuscito a contrastare quei difetti strutturali che questo si porta dietro da decenni. È servito a limitare, o meglio a rimandare, la perdita di posti di lavoro tra gli occupati maggiormente garantiti, quelli a tempo indeterminato, in linea in fondo con tanti provvedimenti degli ultimi 25 anni.
Non è un caso che i licenziamenti per motivi economici siano scesi del 51,1% tra 2019 e 2020 tra coloro che hanno un posto permanente (per ragioni escluse dal blocco, come fallimento o cessazione delle attività), mentre sono diminuiti meno, del 36,3%, tra chi aveva un contratto a termine.
Tra l’altro fra questi ultimi, le vere vittime della crisi, a fare strage è stato soprattutto il solito metodo usato dalle aziende per tagliare il personale, la non riconferma alla scadenza del contratto. Le cessazioni causate da questa motivazioni sono state le più numerose in generale, 1,7 milioni. Come gli altri anni più di tutte quelle che si sono verificate per qualsiasi motivo tra chi aveva un contratto a tempo indeterminato. E naturalmente nessun provvedimento ha potuto impedire che ciò accadesse.
Il blocco dei licenziamenti fin dalla sua nascita è stato concepito per aiutare quel blocco sempre più piccolo ma ancora maggioritario di dipendenti, più anziani e ricchi della media, che il problema della scadenza del contratto non ce l’hanno.
Ora la speranza è che accanto ai licenziamenti ripartano anche le assunzioni, e che per esempio riprendano le trasformazioni da tempo deteminato a indeterminato, che nel 2020 sono pure diminuite, e anzi più di quanto abbiano fatto le cessazioni.
Perché l’emergenza italiana, oggi come sempre, non sono i licenziamenti, ma la scarsità di occupati e di nuovi lavoratori.
Sono questi i dati a cui dovremmo guardare in primis. Alla quota di inattivi che già prima della pandemia ci ritrovavamo, di ben il 42,8% del totale della popolazione, tra le più alte d’Europa, in gran parte tra l’altro composta inattivi da molto tempo.
Dati Eurostat
E alla percentuale troppo limitata di disoccupati che anche in tempi normali, e quindi anche durante la crisi, passa da questa situazione all’occupazione, cioè circa il 15% contro il 20% o più in media in Europa.
Dati Eurostat, dati per trimestre
Quando il dibattito pubblico si sarà spostato dal blocco dei licenziamenti per esempio alle politiche attive del lavoro allora sarà un segno che avremo svoltato pagina. Forse non siamo lontani.