Aule vuoteLa prossima sfida dell’università è la crisi demografica

Come spiegano Pier Giorgio Bianchi e Paolo Alberico Laddomada nel libro “Il reddito di istruzione” (Egea), nei prossimi vent’anni almeno 17 atenei rimarranno senza nuovi studenti, una perdita di circa 260mila immatricolati. Bisogna elaborare fin da subito nuove soluzioni sia sul piano dell’orientamento che delle strutture

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Nel 2040 l’ISTAT stima che i residenti in Italia compresi nell’età tra i 18 e i 20 anni saranno 1 milione e mezzo circa, 235mila in meno rispetto al 2020 (-13%). Se ad oggi per 100 giovani (diciannovenni) potenzialmente immatricolabili all’università ci sono 115 sessantasettenni (età legale per andare in pensione), questo rapporto nel 2040 potrebbe crescere vertiginosamente arrivando a 184 sessantasettenni ogni 100 diciannovenni.

Tenuti fermi il tasso di diploma e il tasso di immatricolazione nel prossimo ventennio, potrebbero perdersi cumulativamente – se si calcola la differenza tra ogni annata di immatricolati e l’anno accademico 2019/2020 ‒ circa 260mila immatricolati.

Se si considera che la mediana degli immatricolati a ogni ateneo è di circa 2.300 unità, ciò significa che da qui al 2040 fino a 17 atenei potrebbero ritrovarsi senza nuovi immatricolati.

Secondo le previsioni, gli immatricolati rimangono più o meno costanti fino al 2028/2029 (oscillazioni nell’intorno di 4.500 immatricolati) per poi iniziare a diminuire drasticamente arrivando a toccare il picco minimo nel 2038.

Per tenere conto delle polarizzazioni del Paese si è ritenuto opportuno inoltre approfondire, laddove possibile, l’analisi anche a un livello regionale.

Nel prossimo ventennio il numero di ragazzi compresi tra i 18 e 20 anni si ridurrà maggiormente nel Meridione. Se nel periodo che va dal 2020 al 2040 il punto di minimo per l’intera Italia sarà toccato nel 2038 con una popolazione pari al 86% di quella del 2020, nel Mezzogiorno si avrà un impatto maggiore (77% della popolazione del 2020).

Inoltre, le regioni del Sud e delle Isole si troveranno a fronteggiare un doppio rischio: da un lato la riduzione della popolazione giovanile e dell’altro un già basso tasso di immatricolazione (58,6%), inferiore a quello della media nazionale (61,6%).

Negli ultimi anni gli investimenti pubblici in istruzione sono diminuiti. Lo Stato ha ridotto, sia in termini relativi che assoluti, l’ammontare di risorse destinato all’università. Per cercare di arginare questo fenomeno non è stato comunque sufficiente l’aumento dell’investimento con risorse di privati.

Inoltre, come si è esaminato, il budget destinato dalle famiglie italiane all’istruzione universitaria è molto basso e vi è una differenza sostanziale nella spesa in istruzione tra le famiglie italiane in termini geografici, reddituali e per titoli di studi.

L’inadeguato livello di investimenti pubblici e privati fa sì che l’Italia faccia registrare il numero di laureati più basso in Europa dopo la Romania, un primato non invidiabile.

L’assenza di borse di studio e un inadeguato orientamento universitario sono due dei principali motivi che possono provare a spiegare questo fenomeno. Risultato di questo stato di cose è lo skills gap, cioè la differenza tra le competenze di cui sono in possesso i laureati (quando vi siano in misura almeno sufficiente rispetto alle esigenze occupazionali delle aziende) e le richieste professionali delle aziende: ciò causa alle imprese italiane difficoltà nel reperire le giuste competenze sul mercato del lavoro.

Tuttavia, come si vedrà nel Capitolo 2, la scarsità di offerta di laureati è accompagnata da una domanda contenuta di professionisti con laurea. Inoltre, il titolo di studio è valorizzato, in termini di stipendio, meno che in altri Paesi europei.

A causa della configurazione sociogeografica del Paese, tutti questi problemi sono più accentuati al Sud e nelle Isole, regioni che vedono emigrare il proprio capitale umano verso il Nord, accentrando così di fatto in poche regioni la popolazione più istruita e aumentando le già ampie disuguaglianze socioeconomiche.

A questo, si aggiunga anche un housing-gap, in quanto le strutture pubbliche e i collegi di merito, adibiti a ospitare gli studenti, sono di gran lunga insufficienti.

Come se non bastassero i problemi attuali, l’università nei prossimi anni si troverà a fare i conti con la crisi demografica del Paese andando a fronteggiare una riduzione che, rimanendo invariati gli attuali tassi di passaggio dalle scuole superiori, potrebbe arrivare a sfiorare le 260 mila matricole in meno in venti anni.

Tutti i problemi enunciati erano già presenti prima che la pandemia del Covid-19 richiedesse al sistema universitario un rapido adattamento, tra le altre cose, a una didattica a distanza. Non è dato ancora sapere quali saranno gli effetti sui numeri di tale situazione emergenziale. Tuttavia, appare necessario lavorare alla radice del problema.

Al fine di scongiurare un’università senza studenti appare fondamentale valorizzare le risorse che potranno arrivare dal Recovery Plan per non perdere ulteriore terreno rispetto agli altri Paesi europei. Per far fronte agli scenari evidenziati, il sistema universitario dovrà muoversi sue due direttrici.

Da un lato lavorare sul versante della domanda. Riducendosi il numero della popolazione giovanile, sarà ancora più importante puntare su un corretto orientamento per aumentare tassi di passaggio e diminuire la dispersione scuola-università.

Inoltre, sarà interessante la possibilità di valutare iniziative per aumentare gli immatricolati in due categorie di persone: nella fascia di popolazione più adulta, nella prospettiva del cosiddetto lifelong learning e nella categoria degli studenti stranieri, provenienti da alcune zone del mondo che saranno in boom demografico ‒ come l’Africa – al fine di sfruttare a pieno il fenomeno dell’internazionalizzazione dell’education.

Allo stesso modo, per stimolare e accogliere una maggior domanda di istruzione, si dovrà lavorare anche sul lato dell’offerta e qui ci sarà un maggior bisogno di un utilizzo efficace del Recovery Plan. Ci si dovrà focalizzare infatti per adeguare gli asset tangibili e intangibili.

Per i primi sarà necessario adeguare le infrastrutture come aule, spazi di studio e per residenzialità. Per i secondi servirà ragionare su nuovi metodi didattici per aumentare la capacità produttiva e accogliere più studenti con gli stessi spazi (per esempio lezioni/esami a rotazione), magari anche puntando sulla informalizzazione delle università, che potrebbero acquisire nel perimetro della loro offerta formativa istituzioni formative non istituzionali (per esempio coding bootcamps online o ed-tech startups).

da “Il reddito di istruzione. La strategia per rilanciare il Paese parte dall’università”, di Pier Giorgio Bianchi e Paolo Alberico Laddomada, prefazione di Francesco Profumo, Egea editore, 2021, pagine 147, euro 18