La Belt and Road Initiative, lanciata nel 2013 dal presidente Xi Jinping, ha riempito fin dall’inizio le pagine dei giornali ma ben poca attenzione è stata dedicata al suo pilastro finanziario. A trattare questo particolare aspetto è Alessia Amirighi, co-direttrice dell’Asia Centre dell’ISPI, nel suo ultimo libro “Finanza e potere. Lungo le Nuove Vie della Seta” (Egea).
Come spiega Amighini, la Bri è stata pensata dalla Cina per lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto, del commercio e della comunicazione, ma non solo. Il progetto funge da trampolino di lancio per il rafforzamento e l’espansione della cooperazione finanziaria della Cina col resto del mondo.
Obiettivo principale è l’aumento della circolazione del renminbi, che da «moneta del popolo» diventa strumento di una globalizzazione «al contrario». Come scrive Amighini, gli altri Paesi accolgono una crescente presenza cinese sui mercati internazionali senza che Pechino debba aprire il proprio settore finanziario alle regole condivise internazionalmente. La finanza, grazie anche alla Bri, diventa quindi strumento di soft power e imprime un nuovo corso alla globalizzazione, come spiega Amighini a Linkiesta.
Perché la Cina vuole aumentare l’uso internazionale del renminbi?
I motivi sono principalmente due. Prima di tutto, la Cina ne ha bisogno perché avere grandi movimenti di valuta e di transazioni finanziarie e commerciali con l’estero senza la convertibilità della propria moneta è poco agevole. In secondo luogo, c’è il tema dei finanziamenti in dollari dei progetti della Bri. Le transazioni in dollari, usate per centinaia di progetti, sono soggette alla giurisdizione americana e se un giorno uno dei Paesi coinvolti nella Bri dovesse finire nella lista nera degli Stati Uniti ciò sarebbe un problema anche per la Cina. Da qui la scelta della Cina di lanciare anche il renminbi digitale, utile per aggirare le sanzioni americane. L’obiettivo è quello di creare una sfera di circolazione del renminbi isolata da quella del dollaro dando così vita a un vero e proprio blocco di Paesi che usano la moneta cinese. Tutto ciò non ha tanto un impatto finanziario, ma aumenta enormemente l’influenza politica della Cina.
Il renminbi diventa quindi una forma di soft power.
Sì e lo sarà sempre di più perché in molti Paesi africani o del Sud-Est asiatico, privi di sufficienti riserve di dollari, il renminbi è usato per pagare l’import-export con la Cina. L’Argentina per esempio ha più del 45 per cento delle sue riserve in valuta estera in renminbi e se la percentuale dovesse aumentare ulteriormente Buenos Aires sarebbe costretta a importare solo dalla Cina. Il disegno di Pechino è molto radicale. Il Partito comunista vuole controllare non solo la terra e il lavoro, ma anche la moneta: il renminbi digitale non è altro che la versione moderna del marxismo delle origini. Sono solo le sembianze a essere diverse perché siamo nel 2021.
Che ruolo ha la Bri per la finanza cinese?
La Bri è una piattaforma che giustifica il fatto che la Cina sigli accordi di cooperazione finanziaria con i Paesi coinvolti nel progetto e che già hanno firmato altri tipi di intese con Pechino. Si crea così un effetto lock-in che rende profittevole aumentare il numero di canali che legano un dato Paese alla Cina. Tutto ciò, ovviamente, aumenta l’influenza di Pechino a livello di politica estera.
Anche le politiche dei prestiti possono essere considerate uno strumento di controllo?
Sicuramente sì, perché i prestiti sono concessi a condizioni di mercato e non a condizioni preferenziali come accade solitamente nei progetti di cooperazione allo sviluppo, per cui i Paesi si ritrovano a dover pagare sia il debito sia gli interessi. E non tutti sono in grado di farlo, come dimostra il caso del Montenegro. Adesso l’Unione europea dovrà pagare i debiti contratti da Podgorica dato che il Paese è prossimo all’entrata nell’Unione. Per la Cina però è un rischio avere così tanti creditori, per questo trova sempre delle alternative al pagamento in denaro.
Qual è la reazione americana al progetto cinese?
Gli Stati Uniti hanno adottato una difesa passiva, limitandosi a dissuadere a parole gli alleati dall’entrare in relazione con la Cina, ma non è stato abbastanza. Servono delle azioni concrete.
Che effetto hanno avuto le politiche dei dazi sulla decisione di far aumentare l’uso internazionale del renminbi?
Le politiche dei dazi hanno portato la Cina ad accelerare alcuni progetti come la Via della seta sanitaria o digitale e soprattutto la creazione di un’area di quasi libero scambio che include anche Corea del Nord, Giappone e Australia con l’obiettivo di regionalizzare le catene del valore. A minare questo progetto è però il nodo impossibile da risolvere dei semiconduttori. La Cina produce il 20 per cento dei semiconduttori che usa, mentre importa il restante 80 per cento da Taiwan, come il resto del mondo. Pechino però punta ad annettere l’isola entro il 2049 e ambisce a raggiungere l’indipendenza tecnologica, una prospettiva inaccettabile soprattutto per gli Stati Uniti. Siamo così di fronte a una situazione irrisolvibile e che potrebbe avere degli esiti infausti.
Russia e Cina hanno dato via alla cosiddetta alleanza finanziaria per detronizzare il dollaro. Che probabilità di successo hanno e qual è la reazione americana?
La probabilità di successo è altissima: oltre il 50 per cento del commercio sino-russo è in renminbi e la Russia commercia sempre di più con la Cina a causa delle sanzioni. Noi stessi l’abbiamo spinta sempre di più verso Pechino. Fino a oggi si pensava che il sentimento anti-cinese della Russia avrebbe tenuto Mosca lontana da Pechino, ma adesso i due Paesi hanno trovato un obiettivo comune: dimostrare agli Stati Uniti che insieme possono fare paura. Gli Stati Uniti hanno poco margine di manovra e lo stesso dialogo tra Usa e Russia serve a poco se Washington non ha nulla da offrire in cambio.
In che modo la Cina usa la finanza per entrare in Europa?
Alcuni Paesi dell’Unione europea sono molto legati alla Cina a livello finanziario. Ma se è vero che la finanza va generalmente avanti da sola, essa può contare anche sul supporto implicito dei governi, soprattutto in Francia, Germania, Lussemburgo e Belgio. Siamo di fronte a un atteggiamento schizofrenico, in cui la posizione del singolo Paese cambia se c’è di mezzo la prospettiva di un ingente profitto con la Cina. Questo crea però dei problemi a livello di politica estera comunitaria e non permette di adottare una posizione coerente.