Non è necessario essere appassionati del mondo classico per conoscere il nome di Mary Beard. La studiosa britannica, professoressa a Cambridge, è ormai un personaggio noto a livello mondiale.
Forse, come scrive il Financial Times, è la classicista «meglio conosciuta al mondo». Quasi un marchio: a partire dai suoi libri sull’antichità romana e greca, per finire con film e documentari. I suoi folti capelli bianchi, lo spirito vivace, la sua presenza costante sui media la hanno trasformata in una star di impatto planetario.
Non colpisce allora che, anche in questo incontro/pranzo con il Financial Times di fine aprile (reso complicato dalle restrizioni), ne approfitti per spaziare: dalla pandemia fino alla crisi delle discipline classiche. In mezzo, uno scontro dialettico con Boris Johnson, grande conoscitore di cultura antica, da cui è uscita vincitrice.
«Lui ha una grande capacità retorica. Anche io ne ho, ma molto meno di lui». Il trucco per aggiudicarsi il dibattito (una discussione su: è meglio Roma o Atene) è stato «prepararsi molto. Leggere i suoi libri con molta cura con l’idea che avrebbe adoperato gli stessi ragionamenti. E così è stato».
Da un certo punto di vista, è proprio questo il suo ruolo. Da un lato studiare e far conoscere gli antichi e dall’altro correggere gli usi distorti che vengono fatti per ignoranza o per opportunità ideologica.
Un esempio è proprio l’impiego fatto dai suprematisti bianchi americani (e le scritte “μολὼν λαβέ” apparse sugli striscioni durante l’attacco al Campidoglio del sei gennaio lo dimostrano), che sfruttano un serbatoio di stereotipi come puntello per le proprie teorie deliranti. Ma nel novero rientrano anche le pressioni – di parte opposta – per chiudere le facoltà classiciste, proprio perché considerate un residuo ideologico classista, razzista e bianco.
Per orientarsi in queste diatribe occorre buon senso («La proposta di smembrare queste facoltà e accorparle ad altre sarebbe controproducente, anche solo perché i fondi sono pochi e gli amministratori universitari non aspettano altro per chiudere»), una certa intelligenza («il nostro vero errore è pensare che gli antichi siano sovrapponibili a noi») e la capacità di sapere leggere l’attualità. «Anche io sono per le riforme nel settore», spiega.
E lo è sempre stata: da quando nel 1984 era l’unica a insegnare Lettere Antiche a Cambridge le cose sono migliorate, ci sono più donne e più giovani, ma il settore «non è ancora molto diverse», spiega al quotidiano britannico.
Più che altro, riconosce che la pandemia avrà degli effetti di lunga durata sul metodo di insegnamento, che sarà destinato a cambiare. «È caduto il feticcio delle tre ore passate seduti a prendere appunti», spiega. Ma anche il senso stesso della lezione di persona ha perso quota, in favore di quelle registrate. Una sorta di Netflix del pensiero classico.
Per il resto, non rifiuta i paragoni, spuntati come funghi per tutto il 2020, con le pandemie antiche. In particolare quella di peste che colpì Atene nel 429 a.C e quella che nel VI secolo d.C, sotto Giustiniano, uccise circa 50 milioni (o forse di più) di persone. «La storia ci insegna che la reazione delle persone è sempre diversa. E, di conseguenza, che non esiste una reazione naturale, ma sono tutte manifestazioni culturali, che cambiano nel tempo».
Il fatto che gli antichi si rivolgessero agli dèi non deve sorprenderci più di tanto, dal momento che «anche la fiducia riposta dalla gente nel metro di distanza, nelle mani da lavare e nella mascherina somiglia a un pensiero magico» o almeno fideistico, stavolta in una entità chiamata «Scienza». Non è la stessa cosa, certo. Ma qualche tratto di somiglianza c’è.
È proprio questo – spiega – il senso stesso dell’antichità: parlare di noi attraverso uno specchio distorto. «Il mondo classico è una metafora», sintetizza. Un punto di riferimento cui ci si sovrappone e da cui ci si distacca. Un metodo per mettere alla prova i propri valori e definire le proprie scelte.
«Sono contraria alla rimozione della statua di Cecil Rhodes», spiega, riferendosi alle richieste di spostare il monumento del filantropo (ma schiavista) collocato a Oxford. «Anche tenere in piedi i simboli sbagliati è un modo per ricordarci di come le opinioni cambino nel tempo. E che anche noi, un domani, potremmo essere collocati nella parte sbagliata della storia».