Dirò subito che non amo i frequenti richiami che nel discorso pubblico e sui giornali si fanno alla Disuguaglianza con la maiuscola. La si interpreta quasi sempre in chiave ideologica e persino di sapiente posizionamento politico personale ma “quella” disuguaglianza così ottenuta è inevitabilmente fredda, sa spesso di artificioso, di formula prefabbricata, di chiacchiera politicante all’ora dell’ammazzacaffè. Il lavoro (culturale) che invece c’è da fare è innanzitutto quello di mappare il bisogno, di riferirsi sempre a ciò che avviene in basso e ai mutamenti della società, anche a costo di far proprio qualcosa che in precedenza non si era previsto o addirittura si era combattuto. Confesso che in quest’opera, tutt’altro che facile se svolta con la mente aperta (e disponibile ad ammettere gli errori), è faticoso trovare compagni di strada. E più facile trovare avversari armati delle proprie invincibili sicurezze.
Fatto questo preambolo di metodo passo al merito. Ovvero a che cosa ci sta insegnando la pandemia riguardo alla mappatura di cui sopra e subito dopo proverò a misurarmi con il tema della capacità di rappresentare il bisogno. È chiaro che per avere un quadro degli effetti complessivi dell’epidemia sul corpo sociale bisognerà attendere di esserne usciti perché il tempo è un fattore decisivo. Provo qui ad abbozzare qualche riflessione in corsa, con tutti i caveat del caso.
Innanzitutto il Reddito di cittadinanza: in Italia siamo arrivati in ritardo alla decisione di dotarci di uno strumento universalistico di lotta all’indigenza con il Rei (reddito di inclusione) varato dal governo Gentiloni a fine agosto 2017. Purtroppo un Paese in cui il peso politico e culturale della sinistra e del sindacato è stato superiore, quantomeno, alla media dei Paesi occidentali il dossier “povertà” non è stato mai affrontato con la dovuta attenzione. Incredibile. Ci siamo arrivati tardi e successivamente il tema del reddito universale è diventato terreno di una sorda lotta politica. Il Movimento 5 Stelle ha fatto del Reddito di cittadinanza la sua bandiera – subito dopo la lotta alla Casta – e lo ha imposto in sede governativa (marzo 2019) ma purtroppo ha voluto mischiare welfare e politiche per il lavoro creando più di qualche contraddizione e ritardo.
Al netto però di tutte queste valutazioni il Reddito di cittadinanza nella stagione della pandemia si è rivelato una diga potente e ha comunque assicurato a un buon numero di famiglie un flusso di entrate decisivo. Chi è rimasto fuori da quel perimetro, penso ai lavoratori del terziario low cost e ai precari in nero, sta soffrendo di più e le riprese televisive delle file milanesi al Pane Quotidiano sono la fotografia fedele dell’ampiezza di quest’area di disagio. E una conferma ci è arrivata dai dati Istat di marzo 2021 sull’incremento della povertà, soprattutto a danno dei working poor delle aree metropolitane del Nord messi a terra dalle restrizioni sanitarie imposte agli eventi, alle fiere, allo spettacolo e allo sport.
La seconda riflessione che vorrei introdurre, sempre facendo riferimento al caso milanese, investe la tipologia dell’intervento di welfare che si è andato dispiegando in questi mesi. Laddove, purtroppo, è apparsa del tutto assente l’offerta di sanità territoriale invece la rete di assistenza di ultima istanza ha funzionato in modo decentrato e in qualche maniera molto prossima al bisogno. Per quello che è stato possibile capire, in una fase in cui anche l’attività di ricerca sociologica ha subito interruzioni, la rete del volontariato è riuscita in due operazioni. Ha sommato protagonismi di diversa matrice – dalle Caritas ad Emergency, per dirla con uno slogan – ha fatto virtù della compresenza di modelli di assistenza diversi come quello che traccia l’assistito e lo segue e quello che invece si limita a distribuire “il sacchetto dei viveri”, ha saputo supplire alle smagliature della macchina del welfare locale. Non è cosa da poco e anzi penso che quest’esperienza si rivelerà preziosa per impostare il “dopo”, ovvero quando dovremo ragionare a bocce ferme su quale modello di assistenza sanitaria ed economica vorremo implementare in maniera permanente.
La terza riflessione che vale la pena impostare riguarda la famiglia e la sua capacità di essere, nonostante tutti i terremoti che l’hanno investita, ancora un hub di distribuzione del reddito. In una doppia accezione: i pensionati che pure durante i mesi della pandemia sono stati arruolati tra i “garantiti” hanno permesso che la filiera dei loro familiari risultasse comunque protetta, anche in virtù di una involontaria contrazione delle spese per i consumi; la famiglia ha assorbito al proprio interno le tensioni tra chi, nonostante il virus, ha avuto continuità nel percepire il reddito e chi invece ha subito un drammatico stop.
Ha giocato da fattore coesivo tra statali garantiti e autonomi non garantiti (in questo fortunatamente supportata dalla responsabilità delle associazioni di categoria). Ma sommando questi fattori alla recentissima introduzione dell’assegno unico per i figli ne viene fuori ancora una volta l’importanza della redistribuzione interfamiliare, che si presenta come una sorta di ammortizzatore sociale della fascia giovanile e della bassa partecipazione al lavoro delle donne.
Veniamo ora al tema della rappresentanza del bisogno. Il Terzo settore ha il suo tallone d’Achille nella sua stessa frammentazione: la capacità di aderire alle pieghe della società e la prossimità ai luoghi del disagio diventano purtroppo un fattore di limitazione quando si manifesta la necessità di fare sistema. Eppure è evidente che rispetto ai vecchi corpi intermedi (i “musei delle cere” li chiamano i critici più feroci) ovvero l’associazionismo d’impresa e quello del lavoro, il Terzo settore appare più moderno, più capace di intercettare la domanda sociale, assai meno condizionato dai riti interni e dalle carriere.
Ma attenzione, quando dico “fare sistema” non intendo dire “fare lobby”, come spesso l’argomento viene derubricato. Parlo di un’autonomia di pensiero e di elaborazione che il mondo del no profit è sicuramente in grado di dispiegare. E che è il presupposto della formazione di una rappresentanza solida, culturalmente non dipendente e capace invece di convincere e spostare gli equilibri. Penso che proprio per questo motivo vadano irrobustiti tutti quei luoghi del no profit (think tank, riviste, fondazioni) che già svolgono questo ruolo ma spesso lo fanno in maniera isolata ed estemporanea. L’upgrading di soggettività di cui parlo è ancor più necessario in una stagione in cui quello che per comodità chiamerei “il pacchetto dei valori Esg” si sta imponendo persino in ambiti nei quali non avremmo mai pensato che potesse imporsi (la grande finanza, ad esempio).
Si tratta di un processo lungo, che ha obiettivi ambiziosissimi (come la pacificazione tra il moderno e la Natura), che al suo interno incontrerà forti opposizioni e maturerà ampie contraddizioni. Sarebbe singolare però che a quell’appuntamento, a quella svolta nella definizione del set di valori-chiave della modernità, il Terzo settore non si facesse trovare già più adulto di quanto appaia oggi.