Alle 19 di sabato lo stadio Parken di Copenaghen era come una cornice senza quadro. I tifosi di Danimarca e Finlandia erano rimasti a contemplare un campo vuoto, dopo aver assistito in diretta al momento più drammatico vissuto su campo di calcio nell’ultimo periodo. Poi sono arrivati i cori, con i tifosi finlandesi che cantavano «Christian» e quelli danesi che rispondevano «Eriksen».
La presenza dei tifosi cambia la fotografia e la colonna sonora delle partite. Anche mentre i medici prestavano soccorso a Eriksen, il silenzio degli spalti restituiva chiaramente la paura e la tensione di quel momento.
Il ritorno dei tifosi allo stadio ripristina un’idea di normalità che si era persa nell’ultimo anno di calcio a porte chiuse, amplificano le emozioni e il pathos dello sport. Non solo nei momenti più delicati, come quello di Danimarca-Finalndia, come ha ricordaro l’esordio degli Azzurri di venerdì scorso – a partire dalla cerimonia d’apertura vista allo stadio Olimpico.
La presenza, nel prepartita, di Alessandro Nesta e Francesco Totti, di Andrea Bocelli e Bono e Martin Garrix, ha ricreato una scena che sarebbe stata valida anche in un torneo prepandemico: c’erano una solennità e un calore che il calcio ovattato dell’ultimo anno non poteva avere.
E poi c’è la partita, vissuta in uno stadio Olimpico con 15mila persone sugli spalti – vestite perlopiù di azzurro, o verde, bianco e rosso – arrivate per fare il tifo e ricordarci vagamente com’era fino a poco tempo fa: l’esultanza sull’autogol di Demiral per l’1-0, la gioia al raddoppio di Immobile, il sollievo dato dal 3-0 di Insigne, tutto sembrava amplficato.
Ed è così più o meno in tutto il continente. Dopotutto Euro 2020 è organizzato in 11 città, da Baku a Roma, da Siviglia a San Pietroburgo, ed è l’evento sportivo – e non solo – più grande e ambizioso dall’inizio della pandemia, una tappa significativa per tutti. È anche un segnale di speranza o di fiducia in prospettiva futura: in questo gli Europei di riescono a sublimare tutte le nostre emozioni e la nostra condizione – di incertezza e speranza allo stesso tempo. Perché nel frattempo vanno avanti le campagne di vaccinazione di ogni Paese, na il continente deve anche fare i conti con un’altra, l’ennesima, preoccupazione legata a Covid-19: la variante Delta – o indiana – rischia di spingere ancora un po’ più in là il ritorno alla normalità in Gran Bretagna e porta preoccupazione nel resto d’Europa, Italia compresa.
«Abbiamo vissuto 18 mesi durissimi ma ora vediamo la luce in fondo al tunnel. Ho un grande sogno, quello dell’Italia che si risveglia e che riparte», ha detto la settimana scorsa il presidente della Figc Gabriele Gravina. Il sottosegretario allo Sport Andrea Costa ha detto che «siamo all’interno di un percorso che ci porta alla normalità. E lo sport fa da apripista».
Nel ritorno alla normalità c’è anche la ripresa di un indotto che in alcuni segmenti si è fermato nell’ultimo anno. «Siamo felici che anche in Italia tornino i tifosi allo stadio, perché è importante anche per una categoria dimenticata da tutti nel sistema calcio», dice a Linkiesta Jacopo Musciolà, presidente della Stewarding Italiani Associati (Sia).
Per gli steward la ripartenza del calcio, l’estate scorsa, era stata una ripresa a metà: senza i tifosi la necessità di controlli prima, durante e dopo la partita era ridotta al minimo. Adesso però cambia tutto, anche rispetto al 2019: venerdì all’Olimpico gli steward erano circa mille, contro i 700 o 800 presenti solitamente all’Olimpico quando gioca la Roma con lo stadio pieno.
«Le modalità di lavoro sono molto diverse rispetto a prima: oggi non solo bisogna controllare il pubblico, ma anche assicurarsi il mantenimento della distanza, paradossalmente in un momento di unione come una partita che coinvolge la Nazionale. E tutto il personale dovrà aver fatto un tampone, o il vaccino o deve essere guarito dal Covid: deve avere una sorta di Green Pass», aggiunge Musciolà.
Ma il ritorno dei tifosi allo stadio non riguarda solo i 90 minuti di una partita e quello che sta intorno al campo da calcio. È anche un momento simbolico e importantissimo per una parte dei tifosi, quelli abituati a seguire le partite solamente dal vivo.
Lo avevamo raccontato l’anno scorso, in un articolo sul ritorno in campo dei calciatori, ma con gli stadi chiusi: scrivevamo che la ritualità quasi religiosa nel seguire le partite da parte di alcuni tifosi non può in alcun modo essere sostituita dallo schermo di una tv.
E su The Athletic l’ex calciatore Stuart James raccontava l’emozione di tornare allo stadio, da spettatore: «Mi manca salutare George, il simpatico parcheggiatore che offre sempre a mio figlio una “bottiglia di pop”, anche se gli dice sempre “no grazie” da cinque anni. Mi manca quella tappa finale del viaggio, dal parcheggio allo stadio, in cui io e lui siamo mano nella mano e acceleriamo più del solito anche se abbiamo un sacco di tempo e non vorremmo camminare velocemente. Mi manca l’odore del fast food che aleggia nell’aria mentre corriamo sull’asfalto fuori dallo stadio».
In Inghilterra alcuni tifosi sono potuti tornare sugli prima della fine della stagione – anche nelle serie minori – con tutte le misure di sicurezza necessarie e compatibilmente con l’evoluzione del quadro sanitario di ogni città. È per questo che la maggior parte dei racconti che scritti negli ultimi mesi sul ritorno negli stadi viene dal Regno Unito.
In un articolo pubblicato a maggio, il Financial Times raccontava il significato della riapertura degli stadi per un gruppo di tifosi del Queens Park Rangers: «Il Qpr non è un grande club, il suo campo ospita solo 18mila persone e raramente è pieno, ma è importante per le imprese locali».
Nell’ultimo passaggio del Financial Times c’è anche un altro aspetto fondamentale della riapertura degli impianti: il paganesimo della vita da stadio è fatta di tante piccole cose, di gesti e consuetudini che attraversano le città, vanno nei bar e nei ristoranti, nei punti di ritrovo. Riportare i tifosi alle loro abitudini vuol dire anche rimettere in moto una macchina economica che si era fermata.
«È quasi impossibile – scrive il quotidiano britannico – calcolare il vero impatto della chiusura del calcio sulle economie locali, perché i sondaggi tendono a tenere conto solo di ciò che i tifosi spendono negli impianti. La Premier League ha stimato che ogni partita ha un valore aggiunto lordo medio di 20 milioni di sterline, e questo include ogni singolo centesimo speso per ogni partita, dai club che pagano gli steward ai fan che pagano per il parcheggio. La perdita per l’economia dalla chiusura del calcio è stata di circa 1 miliardo di sterline».