Sette anni di guerra hanno tracciato una profonda linea di demarcazione nella regione del Donbass, divisa economicamente, politicamente e militarmente tra l’esercito ucraino ed i separatisti filorussi. Gli accordi di Minsk, stipulati nel 2015, hanno posto fine ai combattimenti su larga scala ma non agli scontri sporadici e non hanno fornito una soluzione politica alla questione.
L’intesa obbliga l’Ucraina ad amnistiare i ribelli ed a garantire un’ampia autonomia alle loro regioni in cambio del ritorno di queste ultime sotto il controllo statale. Non tutti, però, sono d’accordo.
I separatisti vorrebbero che la Russia annettesse i loro territori ma Mosca non sembra interessata e preferirebbe sfruttarli come cavallo di Troia per sabotare le aspirazioni europeiste ed atlantiste di Kiev.
L’assenza di una soluzione al conflitto ha favorito il proliferare di nuove tensioni e le autorità ucraine hanno riferito di un aumento delle violazioni del cessate il fuoco.
L’unico elemento che unisce i due territori è l’impianto di purificazione e distribuzione dell’acqua gestito dalla Voda Donbasu, una compagnia statale ucraina che si trova in una condizione paradossale.
La riserva d’acqua si trova in territorio governativo, la stazione di controllo ed il laboratorio nella città di Donetsk, occupata dai separatisti ed altre strutture chiave sorgono in una “zona grigia”, come ricordato da Politico.eu, che sfugge al controllo di entrambi.
Gli avversari dipendono così l’uno dall’altro per i rifornimenti di acqua pulita. Lo scoppio della guerra ha costretto Voda Donbasu a dar vita a periodiche riunioni per garantire il flusso di comunicazione interno e quello delle acque ed a ripensare le proprie attività anche dal punto di vista finanziario.
I consumatori che si trovano sul lato separatista pagano le proprie bollette (generalmente meno costose) in rubli russi, una valuta che la Voda Donbasu che si trova sul lato governativo non può accettare. La compagnia ha problemi di liquidità ed i soldi non coprono i costi di manutenzione.
Dal punto di vista legale c’è il rischio di essere accusati di tradimento dato che, secondo la legge ucraina, non si può ricevere denaro dai separatisti.
I tecnici che lavorano per loro possono non essere pagati anche per sei mesi, come accaduto nel 2019. Ci sono dodicimila chilometri di condutture nei pressi della linea del fronte in Ucraina orientale e la quantità d’acqua che le attraversa è più del doppio del fabbisogno idrico della città di Parigi. Il sistema si rompe spesso dato che la maggior parte dei tubi e dell’equipaggiamento risale agli anni Cinquanta e Sessanta ed i combattimenti complicano le cose.
I riparatori hanno bisogno di autorizzazioni multiple per lavorare in relativa sicurezza ma nessuno può garantirgli che non diventeranno l’obiettivo di qualche cecchino. Senza dimenticare, poi, i rischi provenienti dalle mine antiuomo.
I bombardamenti costanti impediscono a quasi 4 milioni di persone di accedere all’acqua. Un quarto dei residenti è privo di una fonte stabile e le perdite costringono gli abitanti a sperimentare carenze su base quotidiana o settimanale.
Il conflitto minaccia il trattamento delle acque reflue e ciò potrebbe provocare un aumento dell’inquinamento, la diffusione delle infezioni ed un vero e proprio disastro ecologico.
Secondo alcuni studi, infine, l’acqua potabile del Donbass potrebbe già essere contaminata da sostanze radioattive provenienti dalla miniera di carbone di Yunkom, sede di test nucleari nel 1979 e poi allagata, incoscientemente, dalle autorità nel 2018.
Il Donbass, che prima della guerra era il centro industriale dell’Ucraina, ha subito un forte deterioramento delle proprie condizioni economiche.
La produzione industriale si è contratta del 60 per cento nell’Oblast di Donetsk e dell’80 per cento in quello di Luhansk, dove, nelle aree separatiste, hanno chiuso 25 industrie e 41 miniere. Le esportazioni si sono ridotte e dal 2017 sono appena il 10 per cento del totale ucraino. Il tasso di disoccupazione, più alto di quello nazionale, si attesta al 14.5 per cento a Donetsk ed al 15.2 per cento a Luhansk.
Larghe parti del Donbass si sono spopolate, buona parte della popolazione rimanente è costituita da pensionati ed il tessuto economico è monopolizzato dalle imprese separatiste. Gli investitori si tengono alla larga da questa zona e la pandemia si è rivelata un ulteriore aggravio per un territorio già provato. Alcuni centri urbani, come la città di Krasnogorovka, hanno dovuto affrontare sette inverni consecutivi senza riscaldamento. I rifornimenti di gas non possono raggiungerla perché il centro di distribuzione ha bisogno di riparazioni e si trova nella terra di nessuno.
I residenti di alcuni condomini sono corsi ai ripari installando, in violazione di qualsivoglia norma di sicurezza, delle stufe a legna. Non ci sono molte alternative dato che da queste parti, in inverno, le temperature possono scendere fino a venti gradi sottozero e così c’è chi è costretto a bruciare gli arbusti oppure le porte e le finestre delle case abbandonate per poter sopravvivere.
Nel gennaio del 2021 è stato stipulato un cessate il fuoco per consentire le riparazioni ma non è detto che questo accordo sia destinato a durare.