In Italia la nota verbale della Santa Sede sul Ddl Zan, con l’appello al Concordato, ha provocato una decisa messa a punto di Draghi: «ll nostro è uno Stato laico, non è uno Stato confessionale. Quindi il Parlamento è certamente libero di discutere». Proprio l’aspro dibattito sul Ddl Zan ha fatto riparlare da noi delle «Lgbt free zone» polacche, con una certa imprecisione. Non si tratta infatti di zone dove i gay non potrebbero entrare come ripetuto dallo stesso Zan, ma non sono neanche amministrazioni locali che si limitino a dare priorità alla famiglia naturale e alle politiche di sostegno alla famiglia senza discriminare, come ripetuto dai suoi critici. Di fatto, in quelle aree le manifestazioni Lgtbi sono ostacolate e le associazioni Lgbti sono escluse da progetti e bandi di concorso.
Infine, proprio a ridosso della Giornata Mondiale dell’Orgoglio Lgbti 17 leader europei hanno firmato una lettera in appoggio a «diversità e uguaglianza Lgbti», subito prima di un Consiglio Europeo in cui è finito sul banco degli accusati il governo ungherese di Viktor Orbán per la legge che il Parlamento di Budapest ha approvato il 15 giugno, e che vieta qualsiasi contenuto che ritrae o «promuove» l’omosessualità o la riassegnazione del sesso a chiunque abbia meno di 18 anni. Una normativa in cui potrebbero andarci di mezzo spot della Coca-Cola come film tipo Bridget Jones o Harry Potter, e che è chiaramente ispirata alla legge federale russa per lo scopo di proteggere i minori dalle informazioni che promuovono la negazione dei valori tradizionali della famiglia voluta da Putin nel 2013, e che punisce con forti ammende la «propaganda dei rapporti sessuali non tradizionali» tra i minori. Una “legge anti-gay”, come è stata soprannominata, che è stata utilizzata dal Cremlino come potente soft power verso un certo tipo di destra omofoba occidentale. A sua volta, a febbraio Erdoğan ha usato «Lgbt» come insulto nei confronti dei manifestanti.
Insomma, è un momento effervescente sul tema, in Europa e dintorni. Si parla però comunque di discriminazioni, a volte anche gravi. In altre parti del mondo i gay rischiano direttamente il carcere, se non addirittura la morte. In particolare, i Pride si fanno a giugno in ricordo dalla rivolta gay che si scatenò la mattina di sabato 28 giugno 1969, in risposta a un raid della Polizia contro lo Stonewall Inn. Era quello un bar del Greenwich Village di Manhattan, a New York, particolarmente popolare tra gli elementi più marginali della comunità gay. Per ricordare l’evento, un anno dopo varie marce furono organizzate in diverse città degli Stati Uniti: il 27 giugno a Chicago, per far cadere la manifestazione di sabato; il 28 a New York, Los Angeles e San Francisco.
In realtà, però, il movimento di protesta gay era già iniziato nel 1965, con alcune manifestazioni davanti alla sede dell’Onu contro i campi di lavoro che Fidel Castro aveva istituito a Cuba per «rieducare» gli omosessuali assieme ad altri dissidenti: le famigerate Umap. Unità militari di aiuto alla produzione. «Agli omosessuali non dovrebbe essere concesso di stare in posizioni dove potrebbero essere capaci di mal influenzare i giovani», aveva spiegato nel 1965 Fidel in una intervista, per motivare quella istituzione. «Nelle condizioni in cui viviamo, a causa dei problemi che il nostro paese deve affrontare, dobbiamo inculcare ai giovani lo spirito della disciplina, della lotta, del lavoro. Noi non arriveremmo mai a credere che un omosessuale possa incarnare le condizioni e i requisiti di condotta che ci permetterebbe di considerarlo un vero Rivoluzionario, un vero Comunista aggressivo. Una deviazione di questa natura si scontra con il concetto che abbiamo di ciò che un militante Comunista deve essere».
C’è polemica sul modo in cui anche Ernesto Che Guevara sarebbe stato o no parte di questa creazione, ma in effetti è lana caprina. Comunque era strettamente associato al regime che le aveva istituite, così come tutti i dirigenti del regime fascista post 1938 sono direttamente responsabili per le leggi razziali. Per questo ogni volta che la bandiera del Che appare in qualche Pride come icona di rivolta suscita amarezza e protese da parte di coloro che la storia delle Umap la conoscono.
Ma tutta l’America Latina è tuttora area dove i gay rischiano la vita. Martedì la Commissione interamericana sui diritti umani ha invitato il governo del Venezuela a indagare sugli omicidi della scorsa settimana di una donna trans e di due omosessuali nell’area metropolitana di Caracas. La agenzia ha sottolineato «che queste uccisioni si verificano in un contesto di discriminazione e mancanza di protezione per le persone Lgbti, inclusa la mancanza di riconoscimento legale e di registrazione dell’identità di genere delle persone trans e diverse», ed ha affermato di avere informazioni secondo cui il crimine contro la donna «è stato commesso con particolari livelli di crudeltà e crudeltà», visto che è stata addirittura squartata. Di 3554 omicidi di persone transgender per pregiudizio discriminatorio contati tra il 2008 e il settembre 2020 da Transgender Europe presso il Trans Killed Persons Observatory, ben 126 sono avvenuti in Venezuela nel solo 2017, secondo i dati dell’ONG Citizen Action Against AIDS.
Ma anche in Guatemala secondo Human Rights Watch ci sono appena stati due omicidi di donne trans e uno di un uomo gay in una settimana. L’omicidio di una trans ha scosso anche l’El Salvador. In Nicaragua il regime di Daniel Ortega ha bandito un partito di opposizione perché «difendeva valori gay».
In Messico secondo un rapporto ci sono sei omicidi di gay al mese e in Brasile nel 2019 se ne contò uno ogni 23 ore. E sì che in teoria sia in Messico che in Brasile ci sarebbero leggi in difesa degli Lgbti. Il Messico, anzi, sarebbe tra gli 11 Paesi in cui in base a un rapporto della Ilga (International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersexual Association) al dicembre del 2020 dove gli Lgtbi avevano protezione costituzionale: assieme a Bolivia, Ecuador, Sudafrica, Portogallo, Svezia, Malta, Kosovo, Nepal, Figi e, curiosamente, anche Cuba, con una recente giravolta di cui è stata protagonista la figlia di Raúl Castro, Mariela. Non senza sarcasmi della dissidente Yoani Sánchez, secondo cui per Mariela «è ammesso non essere etero ma non essere comunisti».
In altri 57 Paesi c’è poi una protezione considerata ampia: c’è quasi tutta la Ue e anche il Canada ma non l’Italia, che come gli Usa sta tra gli 81 con tutele sul luogo di lavoro. Sette Paesi hanno poi protezioni limitata o irregolare, e in 43 non ci sono né forme di criminalizzazione e né di protezione. Ci sono poi due Paesi in cui l’omosessualità è criminalizzata de facto, 30 in cui si rischiano fino a 8 anni di reclusione, 27 in cui si può arrivare all’ergastolo, e addirittura 11 in cui su rischia la pena di morte. Effettiva in Iran, Arabia Saudita, Yemen, Mauritania, nord della Nigeria, Brunei. Possibile in Pakistan, Afghanistan, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Somalia. Tutti Paesi islamici.