Spain in painL’indulto ai politici catalani, spiegato come in un romanzo di Dürrenmatt

In Spagna tutti gridano, tutti si lamentano. E tutti sbagliano. La destra parla di un golpe, i secessionisti che volevano l’amnistia dicono che la loro lotta non si fermerà, dopo aver fatto 1314 giorni di galera. E rimane il dubbio che Pedro Sánchez abbia preso questa decisione per assicurare la sopravvivenza del suo governo, che ha un disperato bisogno dei voti nazionalisti alla Camera

LaPresse

Una delle poche cose chiare che dovrebbe avere in mente un politico è la differenza fra giustizia e legalità. La prima è chiaramente soggettiva: ha che vedere con la morale e la filosofia. Ciò che è giusto per me può non esserlo per il mio vicino di casa. Al contrario la legalità, figlia del diritto, non può offrire dubbi: è oggettiva, condivisa e applicabile a tutti. Vale tanto per me quanto per il mio vicino.

Iniziare un articolo giornalistico con una riflessione sul diritto, come se fosse un romanzo di Friedrich Dürrenmatt, non è una buona strada per il successo. Ma è necessario farlo, perché una delle armi del populismo è far confondere un concetto con un altro. Ovvero mischiarli con una cattiva intenzione, instillare un dubbio d’illegalità su cose che sono permesse dal diritto ma considerate ingiuste. Purtroppo sappiamo che i populisti gridano ingiustizia ovunque e a piene mani. È sempre il mondo che sbaglia, non loro.

Se i concetti sono chiari, possiamo finalmente focalizzarci sul caos che agita l’attualità spagnola.

Partiamo dai fatti. Il governo spagnolo di centrosinistra ha dichiarato martedì il via libera all’indulto per i nove leader in carcere dopo il tentativo di secessione del 2017. Si tratta di una decisione presa per «motivi d’interesse pubblico», secondo Pedro Sánchez. Cioè, aprire una «nuova stagione di dialogo» fra Madrid e Barcellona che aiuti alla «riconciliazione e la convivenza» nella Catalogna, ha spiegato il premier socialista in un discorso dal Palacio della Moncloa (senza accettare domande dai giornalisti).

Tutti questi politici catalani erano stati condannati a pene tra i 9 e i 13 anni di carcere nell’ottobre 2019 per reati di sedizione (un reato che non esiste in Italia, ma che potrebbe tradursi come ribellione, non violenta, contro lo Stato) e di distrazione di fondi pubblici. Si tratta dei consiglieri regionali che hanno organizzato il referendum illegale del primo ottobre 2017.

È un indulto parziale, condizionato e reversibile. Se i politici appena liberati persistono nel reato, la grazia verrà annullata. Allo stesso tempo però non potranno svolgere attività politica né ricoprire ruoli istituzionali.

La Spagna è decisamente contro la misura (come conferma il 60% dei cittadini, secondo gli ultimi sondaggi), mentre la maggioranza dei catalani è in gran parte a favore.

Il colpo di Stato, secondo Casado e Vox
Purtroppo, Pablo Casado, leader del Partito Popolare (PP, centrodestra spagnolo, capo dell’opposizione e primo in tutti i sondaggi per le prossime politiche) è uno di quei politici che, ahimè, non capisce la distinzione fra legalità e giustizia. Il PP è andato in piazza con Vox (estrema destra) due settimane fa per protestare contro l’indulto. Ma, dopo la decisione, ha usato toni furibondi e parlato di un tentativo di «colpo di stato». Esattamente le stesse parole dei loro ormai soci di Vox, il partito europeo più simile a Fratelli d’Italia, come se questa decisione presa dal governo spagnolo fosse una specie di golpe fatto di soppiatto.

Entrambi i partiti hanno annunciato che ricorreranno in tribunale contro la decisione e l’estrema destra denuncerà ogni ministro di governo per aver firmato il documento che concede l’indulto ai politici catalani. Una reazione che avvicina la destra spagnola a quel populismo arrabbiato che si strappa i cappelli ogni mattina e annuncia il finimondo ogni tramonto. Non perché siano contrari ai provvedimenti di grazia. Ma a causa degli argomenti proposti, che indeboliscono la Spagna e, soprattutto, gettano un dubbio su un sistema istituzionale solido e su una delle migliori democrazie europee.

Non si aspettavano che sia il Consiglio d’Europa che la stampa estera e, soprattutto, i vescovi e Confindustria, annunciassero il loro appoggio all’indulto per favorire un cambiamento nella situazione politica, economica e sociale. Pablo Casado è stato costretto al divorzio con gli imprenditori spagnoli: «Chi sono loro per parlare di politica? Non rappresentano nessuno. Sono complici di Pedro Sánchez». Gli imprenditori non dimenticano che 7000 aziende sono emigrate dalla Catalogna verso Madrid, la regione più ricca della Spagna.

La legge che permette l’indulto è di vecchia data. Anzi, di un’altra epoca: risale al 1870. Ma nella Spagna democratica, dal 1978, sono statti concessi circa 11mila indulti.

Dunque, non parliamo di un caso isolato.

Alcuni casi hanno creato forti polemiche, come quello ai responsabili del mancato colpo di stato militare del 23 febbraio 1981. Indulti che la destra, allora, non aveva criticato.

L’indulto è prerogativa del Governo. Ma deve sempre ricevere l’accordo della Corte Suprema. E quindi diventa una decisione del potere giudiziario. È un atto di diritto. Quindi, è politica: da un punto di vista razionale e ontologico non è possibile considerarlo illegale.

Nazionalisti, gli altri populisti
Un osservatore imparziale, diciamo un lettore italiano de Linkiesta, penserebbe allora che i rapporti fra il governo spagnolo e i separatisti catalani siano migliorati. Dietro le quinte è così. Ma eccoci al secondo polo populista di questa storia: i nazionalisti.

Esquerra Republicana, partito al governo della Catalogna, il cui leader, Oriol Junqueras, è il più celebre fra i nove incarcerati, deve fingere di essere infuriato. Perché? Perché chi la smette di lamentarsi all’interno del teatro nazionalista è visto come un traditore. Quindi, alzano il tono per far finta di essere così tosti come gli altri due attori del mondo indipendentista: Junts, partito del latitante Carles Puigdemont, e la CUP, estrema sinistra nazionalista.

I nove hanno trasformato la loro uscita dal carcere in un atto politico per l’indipendenza. Attaccati a uno striscione con la scritta “Freedom for Catalonya”, hanno promesso che continueranno a lottare per l’indipendenza, chiedendo l’amnistia.

«Qui non si ferma niente. Tutto va avanti», ha dichiarato Junqueras. Un miscuglio di convinzione ma anche di folklore per i loro tifosi, visto che il pentimento non è necessario per la concessione dell’indulto.

Il 29 giugno è già stabilito l’incontro al Palacio de la Moncloa tra il presidente della regione catalana, Pere Aragonés (Esquerra Republicana) e Pedro Sánchez. E il tavolo di dialogo fra le due istituzioni (iniziativa politica per cercare di risolvere il conflitto istituzionale) comincerà da settembre.

Quelli che invece non potranno vivere come prima sono i cinque fuggitivi, fra cui Carles Puigdemont, che continuano a fare i latitanti in Belgio, Scozia e anche la Svizzera.

Loro sono ancora ricercati e andrebbero in prigione se mettessero piede in Spagna.

I dubbi
Questo è un articolo che sembra di parte. Ne sono consapevole. Non tanto a favore dell’indulto quanto contro il populismo vociante, iperbolico e piagnucoloso che sta rovinando il dibattito pubblico e la politica europea.

Lo sguardo sanchista lo capisco e mi sembra logico: un gesto politico per cercare di creare un nuovo clima politico di fiducia reciproca fra la Spagna e la Catalogna. Certo è difficile da mandare giù per tanti, ma Junqueras e gli altri sono stati 1.314 giorni in galera. Abbastanza per capire che uno non può sbattere la porta di uno Stato quando gli pare.

Ma ci sono due punti che, secondo me, rappresentano un rischio per la Spagna.

Anche se non trovo l’indulto né ingiusto né illegale, Pedro Sánchez aveva promesso in campagna elettorale che non avrebbe mai firmato quell’indulto. Lo ha detto mille volte, non una. In ogni intervista.

E anche se ha spiegato perché quel perdono fa bene a quella «nuova Spagna» che vuole costruire, non ha spiegato la sua svolta. Niente è cambiato da allora.

Il problema non è l’indulto, ma la credibilità della politica. E del premier Sánchez. Sarebbe giusto mettere un limite alla contradizione politica (o, forse, alle bugie) su un tema così delicato per la Spagna. È molto probabile che il Partito Socialista pagherà un prezzo elettorale altissimo per questa decisione.

Ma c’è una seconda obiezione, e questa sì che riguarda direttamente l’indulto. Pochi ne parlano, ma secondo me è l’unico pertugio legale che potrebbe permettere una vittoria della destra in tribunale.

Una delle condizioni dell’indulto è che si può concedere solo quando sussistono motivi di giustizia, equità o interesse pubblico: alias, non può permettere alcun vantaggio al partito di governo.

Su 350 seggi totali, il Partito Socialista ne ha 120, più i 35 del suo socio Podemos. In totale, 155, lontani da quei 176 che fanno maggioranza. Una maggioranza che Sánchez ha avuto grazie anche ai 13 deputati di Esquerra Republicana.

La stabilità di governo dipende quindi da quei 13 seggi. E il giornale “La Razón”, conservatore, ha dichiarato che questo indulto blinda l’appoggio dei nazionalisti alla finanziaria del governo per il 2022.

Tutto questo lascia un dubbio. Che sicuramente rimarrà per sempre sospeso. Secondo la maggior parte dei giuristi, la Corte Suprema confermerà l’indulto e boccerà i ricorsi della destra.

Solo il tempo farà capire se la decisione di Pedro Sánchez è una strategia audace, coraggiosa e di futuro per una Spagna migliore, come aveva fatto il suo predecessore José Luis Rodríguez Zapatero, per avviare la fine dell’ETA. Oppure, una mossa spregiudicata, una corsa in avanti politica per assicurare la sua sopravvivenza al potere.

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