Quando pure fosse accertato che Salvini ha condiviso l’iniziativa referendaria sulla giustizia meno per convinzione di merito che per calcolo sondaggistico, resterebbe la domanda: e chi non l’ha condivisa, o addirittura ne ha denunciato l’inopportunità, l’ha fatto per intimo convincimento che son buone le norme di cui si chiede l’abrogazione?
Chi dicesse che Salvini l’ha fatta giusta come l’orologio rotto, quello che due volte al giorno non sbaglia, dovrebbe ancora spiegare in base a quale criterio contino le ore delle riforme quelli che sulla giustizia non hanno le carte più in regola solo perché non si travestono da sbirro nell’attesa del prigioniero da far marcire in galera.
Un po’ come sui migranti, celebrati nelle requisitorie umanitarie di quelli che nell’avvicendamento post Papeete tengono in purezza i decreti salviniani mentre distribuiscono ai tiggì opportune istruzioni su come andar cauti nelle notizie sugli ultimi barconi andati a picco, che se no tocca spiegare la differenza tra l’affogamento democratico e quell’altro.
E sull’amministrazione della giustizia è appunto pressoché uguale, nel senso che all’assunta strumentalità leghista non si giustappone un criterio riformatore alternativo ma una specie di inerzia rimuginata su sondaggi davvero non più nobili giusto perché fatti nei corridoi delle Procure anziché tra gli utenti della Bestia.
Per assurdo, e per chi lo credesse, andrebbe persino bene contestare l’iniziativa referendaria spiegando che è maligna già solo perché c’è di mezzo la Lega. Ma andrebbe bene a un patto: e cioè a condizione che quella denuncia venisse da chi sa dimostrare di non preferire il partito dei pubblici ministeri a quello di Salvini, e di volerli avversare entrambi. Allora, e in quel caso, sì. Prima, e altrimenti, no.