Presente Enrico V all’azzeccagarbugli di Canterbury? Senza tanti giri: «May I with right and conscience make this claim?». Che pressappoco, trasfigurato in curtense domestico, suona: «Al Gallo usurpatore, ci posso rompere le corna sì o no?». Dacché, rassicurato sulla bontà dei suoi titoli contro quelli zoppi dei franzosi, il tipetto raccoglie i fratelli in armi e con loro – happy few – va a riprendersi ciò che secondo diritto gli appartiene.
L’addentellato scespiriano per rimuginare di “mediazione obbligatoria” è solo apparentemente incongruo e sovradimensionato: perché uno mi deve spiegare per quale motivo mai un diritto che la legge attribuisce immediatamente non possa immediatamente essere fatto valere, e debba piuttosto zigzagare tra conciliaboli transattivi e udienze appaltate a un’altra schiatta di burocrati officiata alla giustizia in subfornitura. E obbligatoriamente, per giunta. Se io voglio mettermi d’accordo con la mia controparte sai che faccio? Mi ci metto d’accordo, punto. Mi ci metto d’accordo prima della causa, durante la causa o dopo la causa. Ma perché voglio (e se voglio), e se la mia controparte ci sta: non per obbligo, santo dio.
Il presupposto di questa deriva (per una volta l’osceno termine è adatto) è che siccome l’amministrazione è afflitta da un peso ormai insopportabile di procedimenti, allora si incentiva il ricorso alla mediazione, che appunto avrebbe l’effetto di sgravare la giustizia. Curioso modo di incentivare, con l’obbligo: come dire che per incentivare l’assunzione di fibre, che fanno bene assai (si è sempre in tema di sgravamento), rendiamo obbligatorio consumare lenticchie e cavolfiori.
Non si comprende – più spesso si fa mostra di non comprendere – che non sta né in cielo né in terra ridurre a efficienza un servizio inefficiente chiudendo gli uffici che dovrebbero erogarlo.
Non si capisce – più spesso si fa le viste di non capire – che c’è qualcosa che non fila per il verso giusto se per dare effettività alla tutela di un diritto si impedisce di esercitarlo a chi ne è titolare.
E infine non ci si mette in testa che l’obbligo di rivolgersi al mediatore non solo conculca il diritto del cittadino di affidare le proprie lagnanze a un giudice istruito e pagato, ma inoltre denuncia il fallimento di una funzione abdicata, la funzione giurisdizionale. Che non è trafficare con le nomine né andare in tivù né scegliersi le pratiche buone e dare in conto terzi quelle rognose: è fare i processi e scrivere sentenze, possibilmente bene.
A rendere particolarmente antipatica la deriva è poi certo profilo burocratico-autoritario del sottufficialato mediatorio, con la fungaia di enti, organismi, camere, associazioni, comitati posti a riaffermare la brama italianona di vestire una divisa, di avere qualche grammo di potere, fosse pure la divisa del bidello di giustizia e fosse pure, appunto, il potere di rompere i coglioni a quello che per il danno al soffitto vuole una sentenza contro chi gliel’ha sfondato anziché la pseudo-udienza nello pseudo-procedimento della pseudo-giustizia Made in Italy. C’è un sacco di gente che con perfetto diritto rivendica di voler fare quel lavoro, la mediazione preferibilmente con coppia zeta, e canta la belluria della giustizia che migliora perché rinuncia a far giustizia: e va benissimo, per carità.
Ciò che non va bene è che quel percorso sia obbligatorio e che, come purtroppo rischia di accadere con i propositi di riforma in cantiere, l’obbligatorietà si estenda indiscriminatamente a destra e a manca fino a ricomprendere materie e questioni che dovrebbero essere sottratte all’interferenza del paciere patentato.