Si è conclusa l’ennesima devastante settimana nera della magistratura con le notizie di conflitti interni a Verbania e con le sconvolgenti indiscrezioni degli sviluppi dell’inchiesta bresciana sui verbali dell’avvocato Pietro Amara.
A Verbania con un comunicato pubblico (un’assoluta novità) il capo dell’Ufficio del giudice delle indagini preliminari ha informato gli avvocati difensori di aver tolto il fascicolo sulla tragedia del Mottarone al Giudice supplente Donatella Banci Bonamici (che aveva scarcerato i primi indagati) per assegnarlo a un’altra collega, la titolare Elena Ceriotti, già esonerata dal servizio per l’eccessivo arretrato non smaltito. E lo ha fatto proprio mentre Bonamici stava per decidere (e pare per accogliere) una richiesta di incidente probatorio dei difensori degli indagati, nominando un perito per accertare le cause del disastro.
Il pubblico ministero Olimpia Bossi era contraria, ritenendo addirittura «prematuro» un accertamento con tutta evidenza necessario per capire cosa sia successo tre settimane fa sulla funivia, e ora intende procedere a un «accertamento tecnico non ripetibile» in prima persona.
In realtà lo scontro nasce dalla gestione del momento più delicato dell’indagine sul sinistro: l’individuazione delle esatte cause della sciagura.
Con l’incidente probatorio è il giudice a decidere chi sia il perito da consultare, mentre con l’accertamento tecnico il pallino è nelle mani di un consulente scelto dalla pubblica accusa. Non è la stessa cosa se a governare il momento decisivo della partita è l’arbitro o uno dei giocatori, specie se il competitor si è già espresso puntando il dito sugli indagati.
Se l’arbitro si schiera dalla parte di una delle squadre in campo, il confronto è per definizione squilibrato. Un concetto semplice da capire. Non lo è purtroppo in un Paese dove il grande pubblico, a partire dalla stampa, chiama «giudice» un pubblico ministero. Nel vecchio sistema inquisitorio, i pubblici ministeri e i giudici erano intercambiabili, sedevano alla stessa altezza sul pretorio e a distanza di pochi centimetri l’uno dall’altro, addirittura negli uffici di pretura (oggi soppressi) la figura mitologica del pretore era allo stesso tempo organo dell’accusa e della decisione.
Nel 1990 tutto ciò sarebbe dovuto cambiare, con il passaggio al rito accusatorio in cui si sarebbe dovuto realizzare un effettivo distacco tra l’arbitro e il giocatore dell’accusa, ma si sarebbe dovuta cambiare anche la Costituzione laddove è scritto che i magistrati sono uguali tra loro con la sola distinzione delle funzioni.
Questo passaggio non è avvenuto per la contrarietà della magistratura che si è trincerata dietro la necessità di salvaguardare «il senso dei pm per la giurisdizione», nonostante un referendum dei radicali con uno schiacciante esito a favore della separazione.
Il concetto condiviso da tutta la magistratura era (ed è tuttora) che la pubblica accusa sia cugina del giudice, con il quale condivide la finalità della ricerca della verità, n teoria senza dimenticare le ragioni degli indagati di cui dovrebbe acquisire anche gli eventuali elementi di prova favorevole. Una mitologia che le recenti vicende hanno mandato in frantumi.
Questa cosmogonia idealizzata ha resistito per anni prima che gli scandali a ripetizione dell’ultimo periodo mostrassero una diversa realtà, fatta di una ricerca affannosa di potere e di visibilità, garantite solo dagli esiti favorevoli di inchieste clamorose con la conseguente sottomissione dei giudici agli accusatori.
Ma sarebbe banale ridurre tutto a un rapporto tra pm buoni contro giudici deboli: la vera causa sta altrove, precisamente nella funzione salvifica che una sostanziosa parte della pubblica opinione ha delegato alla magistratura, media compresi. Inizialmente è stato fatto anche con qualche ragione, ai tempi del terrorismo, ma poi gli italiani hanno chiuso gli occhi di fronte a un’evidente tracimazione dal ruolo costituzionale dei giudici.
La vicenda umana del pubblico ministero milanese Fabio De Pasquale ne è un illuminate esempio: diventò noto ai tempi di Mani Pulite quando gestì la tragica vicenda umana di Gabriele Cagliari, suicidatosi come atto di ribellione davanti alla ostinata determinazione del magistrato di tenerlo in galera.
Come ricorda Mattia Feltri, De Pasquale non ha mai fatto mistero di una sua intima avversione al sistema capitalista, da lui accusato con dure parole anche nel corso della requisitoria contro i dirigenti dell’Eni nel recente processo conclusosi con la loro assoluzione dall’accusa di aver corrotto il governo nigeriano. Oggi De Pasquale è indagato proprio per la condotta nel processo Eni dove cercò anche di far sentire Pietro Amara su un presunto avvicinamento dei legali dell’ente petrolifero ai giudici del collegio. Un evidente tentativo di incidere sul giudizio finale dei colleghi giudicanti respinto anche dal presidente del Tribunale di Milano con durissime parole verso l’intero ufficio della Procura guidato da Francesco Greco, prossimo alla pensione.
Nelle motivazioni della sentenza, il tribunale ha silurato De Pasquale scrivendo della intenzionale mancata produzione di una registrazione fatta da Amara al super teste dell’accusa, l’ex manager Eni Vincenzo Armanna, da cui si evince la falsità delle sue dichiarazioni accusatorie, un elemento sicuramente decisivo per i giudici.
La scoperta di tale documentazione è stata del tutto casuale in quanto essa era allegata in un altro processo dove è stata scoperta da uno dei difensori.
Come se ciò non bastasse la procura di Brescia, competente per le vicende giudiziarie che coinvolgono i magistrati milanesi, indaga De Pasquale e il collega Sergio Spadaro, contitolare della vicenda Eni, per il reato di abuso d’ufficio, come riferisce (unico tra tutti i giornalisti giudiziari) Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera, sulla base delle dichiarazioni rese a Brescia dal collega Paolo Storari, a sua volta indagato per avere diffuso i verbali di Amara. Storari ha riferito delle accese discussioni nella procura milanese riguardo la produzione della registrazione di Armanna che avrebbe scagionato i dirigenti Eni.
L’accusa, beninteso da provare, è gravissima e lo è in base alla mitologia diffusa sul ruolo del Pm, “cugino” del giudice, consustanziale della funzione giurisdizionale, con l’obbligo di indagare pure per l’indagato: un’ipocrisia.
Se anche ci fosse questa cultura, da molto tempo è stata accantonata a causa del ruolo esorbitante che nelle grandi indagini hanno assunto gli organi di polizia giudiziaria, i corpi specializzati come il Raggruppamento Operativo Speciale (ROS) dei carabinieri, i Gruppi d’Investigazione sulla Criminalità Organizzata (Gico) della Finanza, il Servizio Centrale Operativo (Sco) della polizia.
Senza il loro supporto, nessun Pubblico ministero sarebbe in grado di compiere alcuna indagine, senza la loro sofisticata tecnologia e soprattutto senza la capacità pubblicitaria di curare le pubbliche relazioni con i media, come ha ammesso in un recente convegno di Magistratura Democratica, il giornalista de La Stampa Giuseppe Salvaggiulo.
Le procure della Repubblica non si sono riempite di investigatori senza scrupoli: assai più semplicemente stiamo assistendo al degrado di una pericolosa cultura che ha visto e vede nel magistrato un ripara-torti sociale contro mafie, imprenditori disonesti, industriali avidi di speculare sulla vita umana, donne e bambini abusati.
Come ha detto il procuratore capo di Bergamo, che sta indagando sulle morti da Covid, una certa parte della magistratura ritiene che il suo compito sia raccogliere le grida di dolore del popolo ferito e calpestato. Una magistratura inconsapevolmente penetrata dal populismo, in cui chi si sottrae alla voglia di giustizia è nel fondo un disertore.
Se è così, allora meglio che i pubblici ministeri e la polizia giudiziaria vadano per la loro strada, inutile preoccuparsi della contaminazione poliziesca dei magistrati dell’accusa: ci sentiamo più tranquilli ad avere giudici più numerosi e più liberi, senza il timore di essere guardati di traverso dai colleghi delusi.
Lo ha detto benissimo Giorgio Lattanzi, presidente della commissione di riforma del codice penale, quando era presidente della Corte Costituzionale in una delle più memorabili sentenze della Consulta: alla magistratura non spetta combattere i fenomeni criminali, ma difendere l’applicazione precisa e garantita della legge penale. I risultati di chi ha snaturato quest’idea li stiamo vedendo.