Centro di gravità permanenteIl Pd si affida a San Gualtieri per ritardare la nuova faida interna

Enrico Letta non è riuscito a rilanciare il Partito democratico e nei sondaggi non supera la soglia del 20%. Giorgio Gori ha proposto una federazione con le forze riformiste durante l’evento organizzato da Linkiesta. Ma la sconfitta nella Capitale potrebbe far ribaltare tutto al Nazareno, di nuovo

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Bloccato dai sondaggi sotto la maledetta soglia del 20 per cento, Enrico Letta comincia a sperimentare sulla sua pelle che non è per nulla scontato che il partito si guidi tranquillamente dal centro. È un luogo comune, perché al centro si può anche essere stritolati dalle ali estreme.

Accadde così persino a Enrico Berlinguer alla fine della sua stagione, messo praticamente in minoranza (ma all’epoca queste cose non si sapevano) dalla destra migliorista e da una sinistra che avrebbe voluto più innovazione, figuriamoci se la malaugurata circostanza non possa materializzarsi attorno a Letta. Il quale forse comincia a sentire sia i brontolii degli ex renziani di Base Riformista che le insofferenze di una sinistra che proprio non si trova a suo agio con Mario Draghi.

La sinistra vorrebbe infatti un po’ di pressione del segretario, seppure ha annotato che questi ha spostato a sinistra il baricentro del partito. Ma è probabile che il ministro del Lavoro Andrea Orlando desideri maggiore condivisione per esempio nella partita del blocco dei licenziamenti (in larga parte affidata a Maurizio Landini) mentre la corrente lamenta lo scarso spazio che Draghi concede sul terreno delle nomine su cui è molto attivo l’orlandiano vicesegretario Peppe Provenzano.

Da quest’ultimo punto di vista la sinistra di Orlando sta premendo moltissimo per far entrare nel cda Rai Francesca Bria, sua amica personale, economista e grande esperta di tecnologie, e la cosa sta diventando un piccolo caso.

Quella tra la sinistra del Pd e il governo Draghi è in effetti una questione che bisognerà seguire perché forse è qui che potrebbero sorgere difficoltà che metterebbero in forte imbarazzo Letta, il quale, a differenza della sinistra dem, considera questi governo «il governo del Pd» e potrebbe trovarsi stretto in un’altra morsa, tra Orlando e Draghi.

Ma la notizia di ieri è il documento di Base riformista, la componente di Lorenzo Guerini e Luca Lotti, nel quale si torna a mettere il dito nella piaga. E la piaga, inutile girarci attorno, è la persistente difficoltà di risalire nei sondaggi, cioè di rinsaldare il rapporto con l’opinione pubblica, essendo stati addirittura scavalcati da Giorgia Meloni: «Dovremo avere l’ambizione di essere il partito capace di guidare l’Italia nella nuova stagione di ricostruzione nazionale. Possiamo esserlo a una condizione: il coraggio di essere una grande partito che sa parlare a tutta l’Italia».

Cose dette mille volte, è vero. E però ha un preciso significato critico verso la gestione di Letta questo richiamo alla vocazione maggioritaria, alla «grande tenda» dei riformisti, nell’ambito peraltro di una generale perplessità (eufemismo) sulle proposte avanzate dal segretario in questi mesi, proposte che infatti non hanno fatto nessun passo avanti, dal voto ai sedicenni allo ius soli alla dote per i giovani effetto di un aumento della tassazione sulla successione.

È senz’altro casuale che il documento di Base riformista sia uscito il giorno dopo l’iniziativa milanese de Linkiesta (ignorata dai grandi giornali) nella quale si è fatto un passo avanti per mettere a fuoco il rapporto fra Pd e riformisti liberal-democratici, e che ha avuto soprattutto il merito di chiarire il concetto di «gerarchie delle alleanze» formulato da Giorgio Gori: si tratta di costruire una federazione fra Pd e le varie forze riformiste come asse di un nuovo centrosinistra che successivamente si può alleare con un Movimento 5 stelle contiano i cui lineamenti però finora sono a dire poco sfuggenti.

È un modo per uscire dal dilemma M5s sì-M5s no e che sistematizza la questione delle alleanze, mettendo in fila i passaggi: federazione con i riformisti, poi alleanza elettorale, se sarà possibile, con i grillini.

Mentre Base riformista, che insiste sul ruolo soggettivo del partito, appare scettica sia sul fronte dei grillini che su quello di «un cosiddetto centro – ben lontano da quello degli anni Novanta – che oggi appare come un campo popolato da piccoli partiti personali, autoreferenziali e soprattutto concentrati sul proprio potere di interdizione». Un giudizio un po’ duro che non si capisce tra l’altro come possa sposarsi con l’entusiasmo dimostrato da Andrea Marcucci (anch’egli di Br) a proposito dell’iniziativa di sabato. 

In ogni caso, seppure in modo defatigante, il dibattito in casa Pd si è riaperto dopo un lockdown durato molto a lungo, e ovviamente anche a causa della situazione oggettiva del Paese. Persino nella maggioranza del partito, da Luigi Zanda a Matteo Ricci, si evocano ipotesi federative che danno il senso di volersi liberare da una sorta di asfissia per una dinamica senza sbocchi. Ed è in situazioni in movimento come queste che basta un’elezione perduta per dare l’ennesimo colpo di frusta a un partito che non trova pace.

Tutto insomma sembra nelle mani di Roberto Gualtieri, ora rinfrancato per la scelta della destra di puntare su una specie di predicatore radiofonico che si chiama Enrico Michetti, meloniano, la cui debolezza è dimostrata dall’aver voluto affiancargli una vice anch’essa estranea alla politica, Simonetta Matone, ed è noto che due debolezze non fanno una forza. Già, tocca a San Gualtieri salvare il Nazareno ma nessuno accetta scommesse.

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