Ci siamo sentite la prima volta per telefono nel 2018. Sana Cheema era stata strangolata per essersi opposta a un matrimonio combinato e si era creato un timido movimento di donne pakistane che si erano esposte per chiedere #veritàperSana.
Mi aveva stupito la sua storia di studentessa che aveva scelto di frequentare un coetaneo non musulmano conosciuto all’università dove si stava laureando, nonostante il ferreo divieto del padre. Mi aveva confidato il terrore di quel giorno in cui suo padre la portò in posto isolato in montagna.
Mi disse che alla fine era andata via da casa. O lui l’aveva cacciata, su questo punto non è mai stata chiara. Sicuramente l’aveva condannata all’isolamento dalla sua famiglia e dalla comunità.
«Per tutta la mia adolescenza ho vissuto sotto una campana di vetro e la mia famiglia mi ha imposto di frequentare solo donne della nostra comunità. Vengo da una famiglia istruita e i miei genitori non si sono opposti a farmi studiare, anzi. Eppure anch’io ero stata promessa in sposa a mio cugino», mi aveva detto Fatma (nome di fantasia per tutelare la sua privacy) che allora aveva scoperto il prezzo della libertà.
Dopo che Saman Abbas è scomparsa a Novellara ci siamo risentite. Nel frattempo ha accettato di insegnare in una scuola superiore a centinaia di chilometri da casa. Oggi è più serena. Si è allontanata dai ricordi, dalle ferite che però ancora sanguinano e non pensa più che le possa succedere qualcosa, sebbene in passato abbia dovuto rivolgersi a un centro di antiviolenza per sentirsi protetta. Tutte le sue amiche pachistane, persino le sorelle, la considerano un’anima perduta.
«Ho rotto un tabù e vivo come un’italiana. E come dovrei vivere, se sono nata qui?». E così oggi ai suoi studenti racconta la sua storia perché sia di esempio. Nella scuola superiore di una piccola provincia ha spiegato la propria storia ai suoi studenti di origine straniera perché sa di essere un modello positivo. E vuole incoraggiarli ad essere altrettanto.
Certo, per vivere più serena lontano dalla sua comunità, ha dovuto mettere una distanza di diverse centinaia di chilometri. E davanti alla storia di Saman Abbas, osserva: «È terribile, ma questo succede perché la maggior parte dei pakistani in Italia arriva da una zona rurale e sono analfabeti. La mia famiglia viene da una grande città e seppur malvolentieri alla fine ha accettato la mia scelta».
La ferita però resta aperta. Le sue sorelle non le parlano più, suo padre neppure. Ogni tanto chiama sua madre e per lei è già tanto sapere che lui è orgoglioso della figlia diventata docente. Ma non glielo ha mai detto direttamente perché il muro fra loro è rimasto intatto, senza crepe. Lei che è riuscita a liberarsi dalla gabbia familiare, dal cugino a cui era stata promessa in sposa, ora non convive più con la paura, si limita a stare lontano dalla sua comunità.
«Mio padre non mi avrebbe punita, è un uomo istruito. Oggi ne sono certa» dice. «Dal periodo adolescenziale ho intrapreso un viaggio personale, cercando di capire dove sia il lucchetto per poter chiudere e seppellire il bagaglio stracolmo di eventi traumatici del mio passato che mi hanno segnato profondamente. Voglio davvero seppellire tutto il bagaglio o continuerà comunque a rivivere nella mia testa?», si chiedeva nella sua tesi nella sua tesi di laurea che mi aveva inviato nel 2018.
Lei oggi è una di quelle poche giovani donne pakistane che è riuscita a fare quello che desiderava, senza finire in una comunità protetta. Non tanto per gli studi, la sua famiglia l’ha sempre incoraggiata a studiare. Ha scelto però l’uomo che amava e che oggi continua ad amare. L’ultima volta che ci siamo sentite al telefono, recentemente, dopo che è emerso il caso di Saman Abbas mi ha raccontato un aneddoto minore, che per lei aveva una grande valenza.
«Ero in gita. Stavo camminando da sola, indossavo la mascherina. Ho incrociato degli uomini asiatici e li ho sentiti dire. “Ma questa a chi appartiene?” Una cosa che mi fa ribollire il sangue. Ma come si permettono? Per loro io non esisto in quanto individuo». Ora che lei non vive più con il fiato sul collo della famiglia e della comunità, ora che è diventata insegnante, ora che è libera ed emancipata dice «Purtroppo se ne sentono ancora di queste storie, di matrimoni forzati. Troppi».
Fatma sta bene, il suo fidanzato la viene a trovarla spesso, ma per arrivare fino a qui ha dovuto scontrarsi con una comunità da lei definita bigotta e ipocrita. E sottrarsi al travaglio con le vecchie generazioni «composte da uomini che dominano e donne che eseguono; padri che vogliono prevalere sulle figlie, le quali con tacito consenso e allegra costrizione si trasformano in “fate in nero” costrette a esaudire ogni desiderio dettato dall’insieme degli usi e costumi della propria cultura. Vecchie generazioni che forse hanno cucito nel cuore la propria categoria, pretendendo che la categoria delle nuove generazioni, figli di immigrati, splenda di luce riflessa».
Certo, la sua famiglia le ha dato gli strumenti per studiare e continuare da sola, ma le ha negato la comprensione. E la solitudine che ha nel cuore, per aver dovuto scappare lontano, per non sentire più quella pressione perché voleva essere libera di scegliere, è la sua ombra. E ai suoi studenti e studentesse più a rischio di diventare emarginati, dice: «Se ce l’ho fatta io, ce la potete fare anche voi».
Lei non fa che ripetere che i matrimoni combinati non c’entrano con la religione, ma con tradizioni oscurantiste. E sarà pure così. Ma chi ha fatto scomparire la giovane Saman Abbas di Novellara che si era opposta a un matrimonio forzato fa sempre coincidere islam e tradizioni. Fatma lo attribuisce all’ignoranza e sa che la scuola è il posto giusto per provare a creare un nuovo paradigma per le nuove generazioni con background migratorio. Attraverso la sua storia di giovane donna musulmana e pakistana che ha scelto il proprio destino.
17 Giugno 2021