La ’ndrangheta e l’antindrangheta esistono e mutano – anche – l’una in relazione all’altra, si guardano allo specchio. A volte riescono a distinguersi con nettezza, altre volte scorgono soltanto un’ombra. Osservarle insieme, naturalmente dentro il flusso degli avvenimenti, è un esercizio utile ad analizzare e comprendere la realtà.
Non è un processo semplice: il tempo che viviamo – la crisi epocale economica, lo sviluppo del turbo capitalismo, la scarsezza di risorse, l’inconsistenza della politica, la sfiducia nelle istituzioni, l’assenza di una classe dirigente – rende difficile l’orientamento nel presente e, di conseguenza, la possibilità di leggere la ’ndrangheta, capire l’antindrangheta.
E c’è una circostanza in più a peggiorare le cose: a una sorprendente capacità dei clan calabresi di interpretare i processi storici e adattare rapidamente i propri modelli non corrisponde (quasi) mai una efficace e tempestiva capacità di reazione della politica e dell’antimafia. Da questo punto di vista la pandemia – che svela con tutta la crudezza possibile vizi (enormi) e virtù (poche) del nostro modello istituzionale, economico, sociale – può servire ad andare al nocciolo delle questioni, per cogliere le trasformazioni della ’ndrangheta, i ritardi dell’antindrangheta E scegliere dove intervenire.
’Ndrangheta e pandemia
Le mafie, e tra tutte prioritariamente la ’ndrangheta, dopo avere messo le mani sull’emergenza sanitaria (per esempio nella produzione dei presìdi) e avere svolto – funzione purtroppo essenziale – supporto alimentare ed economico nei confronti delle fasce più deboli o più colpite dal Coronavirus, si sta attrezzando per compiere un passo in più: punta ad accaparrarsi i sussidi per gli operatori economici e le risorse del Recovery fund.
Non le solite allucinazioni degli allarmisti, ma una valutazione supportata dalle indagini in corso che viene dall’Organismo permanente di monitoraggio e analisi sul rischio di infiltrazione nell’economia da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso secondo il quale le organizzazioni stanno tentando di «accedere illecitamente alle misure di sostegno all’economia», di ottenere il pagamento di prestazioni sanitarie in favore di aziende “mafiose” o collaterali ai clan e di svolgere servizi utili ad affrontare la pandemia (per esempio la sanificazione delle strutture).
Lo conferma anche il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, secondo il quale la crisi offre nuove opportunità ai gruppi criminali, sia nei settori tradizionali «come le multiservizi (mense, pulizie, disinfezione), intermediazione della manodopera, rifiuti, imprese di costruzioni» sia in quelli che «appaiono particolarmente lucrosi come il commercio di mascherine o il turismo».
Non è solo un’ipotesi fondata sull’esperienza: sono già almeno «trenta le situazioni sospette intercettate, con società che sono state costituite all’estero che commerciano in dispositivi di protezione, riconducibili a organizzazioni mafiose o ’ndranghetiste».
Ma il nuovo business delle mafie sono le aziende in crisi, ormai migliaia in tutta Italia. Le mafie hanno «l’esigenza di reinvestire nell’economia legale» gli enormi proventi della droga: lo fanno senza esercitare violenze e intimidazioni, ma mettendo sul piatto denaro o servizi illegali a basso costo. Sta accadendo in queste ore, chissà per quanto tempo ancora accadrà.
Sono centinaia, forse migliaia le aziende acquisite dalle mafie (in maniera lecita o illecita, formale o informale) nei più diversi settori, dall’autonoleggio ai distributori di carburante, dal commercio al dettaglio ai negozi di elettrodomestici, dall’edilizia fino alla ristorazione e al turismo.
Per accorgersene è sufficiente guardarsi attorno nelle nostre città o ascoltare con un po’ di attenzione le denunce (finalmente!) delle organizzazioni di categoria. Anche i numeri ufficiali sono allarmanti: sono circa mille al mese le aziende che hanno cambiato proprietà dall’inizio della pandemia e c’è stato un aumento preoccupante (+10% negli ultimi sei mesi) di operazioni bancarie sospette e segnalate dall’Uif di Bankitalia.
A questi numeri vanno aggiunte le operazioni “informali” e quelle sfuggite alla lente degli analisti. È un meccanismo noto, essenziale, che la pandemia semplicemente sottolinea e aggrava. Che ci riguarderà per molti anni.
Dopo la pandemia, cosa sarà la ’ndrangheta
Ma c’è di più, ed è quello che deve ancora accadere. «Quando i numeri del contagio saranno più chiari – afferma il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo – la ’ndrangheta cercherà di comprendere a fondo quali scenari economici si andranno a delineare in Italia e all’estero».
A quel punto «gli analisti mafiosi, su incarico delle grandi organizzazioni, saranno chiamati ad individuare i settori produttivi più appetibili, in cui immettere gli enormi capitali sporchi» di cui il dispone il sistema mafioso.
La ’ndrangheta interverrà, secondo il magistrato, nei settori ritenuti strategici, acquisendo nuove imprese, rafforzando la presenza «nella gestione dei servizi essenziali, non più limitati allo smaltimento dei rifiuti o al ciclo del cemento, ma anche al settore creditizio, a quello sanitario, delle forniture medicali o, più in generale, dei beni di prima necessità». E tentando di portare a termine il grande progetto di «un “sistema bancario parallelo” a quello legale», provando a consolidare un ruolo “baricentrico” nello scenario economico globale trasformato dalla pandemia.
da “Storia dell’antindrangheta”, di Danilo Chirico, Rubbettino, 2021, pagine 160, euro 16