Business intelligenceIl turismo italiano non deve temere di affidarsi al mondo digitale per progredire

Ogni località del nostro Paese ha la sua bellezza, la sua storia e i suoi paesaggi: ci sono caratteristiche ben definite che però ancora non riescono a essere sfruttate in ambito tecnologico. Bisogna dare importanza all’informazione, che non è solo promozione, ma anche immedesimazione della realtà che si vuole scoprire

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Eccoci al terzo memo per il turismo che riprende vita. Il primo era centrato sulla comunicazione con l’idea che, senza una comunicazione distintiva (cioè, che esprima l’unicità e la rarità di ogni destinazione), comunicare è un’attività inutile (e anche noiosa); il secondo, in connessione con il primo, è l’idea che l’Italia abbia la possibilità di giocare su moltissimi brand, ognuno con la sua personalità e il suo mercato. Adesso entriamo nel cuore della contemporaneità, e della realtà più profonda dell’oggi, cioè il passaggio di tutto il mondo (o quasi) del turismo nell’era digitale.

Non pensate che sia un passaggio neutrale, cioè qualcosa che acceleri, semplifichi, faciliti le operazioni, lasciando però la sostanza delle cose (il potere, i soldi, la libertà di scelta dei consumatori, la competizione tra destinazioni) come prima. Cambia tutto: è bene saperlo. La sovranità del silicio non si esprime in atti eclatanti, relazioni ai convegni o negli stand delle fiere, ma arriva silenziosa, furtiva, invisibile («primavera non bussa, lei entra sicura, come il fumo lei penetra in ogni fessura», per chi ricorda De André): si nutre di piccoli passi incrementali, nessuno dei quali è un grande cambiamento, ma – se ci si ferma un momento – si vede che niente è rimasto come prima, e non ce ne siamo neppure accorti.

Il mondo digitale è diverso dal mondo analogico perché è in grado di trasformare (ridurre) il mondo reale in termini simbolici. Per essere meno criptico, significa che una destinazione turistica esiste in quanto esiste l’informazione su di essa; un albergo esiste in quanto è presente nella lista dei grandi player della prenotazione alberghiera; una colonnina elettrica (esempio non a caso) non esiste se non si trova nella mappa di Google; un sito (o portale che dir si voglia) non esiste se non è presente nei primi risultati dei motori di ricerca e così via. Sembrerà assurdo, o solo paradossale, ma non esiste la realtà, esiste l’informazione sulla realtà. D’altro canto, si dice che esse est percipi: essere è come si è percepiti (e vale ancora adesso); aggiornato, significa che l’esistenza si manifesta attraverso la sua informazione. Da questo giro stretto non si sfugge.

Non c’è solo lo scambio simbolico, cioè l’informazione che sta al posto dello scambio reale (un tempo la scelta della destinazione era data dai suggerimenti di amici, conoscenti o, professionalmente, dalle agenzie di viaggio), ma soprattutto c’è la business intelligence, cioè il suo aspetto meno visibile e più formidabile. Non spendo troppe parole a descrivere questo potere magico, per cui in qualunque modo manifestiamo un desiderio, si trasforma incredibilmente in un banner pubblicitario sul primo sito che vediamo, perché fa parte dell’esperienza di ognuno.

Il punto è che la proprietà e l’uso dei dati sono un vantaggio competitivo imbattibile in un settore dominato, appunto, dall’informazione. Il ruolo del singolo player (albergatore, destinazione turistica, o qualunque altra cosa) è marginale: al massimo producono qualcosa di cui non controllano il mercato. Inoltre, la fedeltà verso il prodotto (cioè la destinazione) è solo apparente, perché quella reale è verso la piattaforma. Non è ancora del tutto così, ma la tendenza inesorabile è questa.

Inutile aggiungere come il potere dato dall’incrocio tra informazione e business intelligence si traduca in un trasferimento enorme del reddito prodotto dall’industria italiana dell’ospitalità verso soggetti esteri ed estranei al sistema turistico. È come se un intero paese lavorasse nell’ospitalità (non solo il verticale turistico, ma l’insieme stesso del Paese) e la quota relativamente maggiore di entrate andasse a chi, legittimamente, fa un altro mestiere. Questo potere è fondato sulla tecnologia, sulla competenza e – perché non dirlo – sul talento: nessuno fa rapine. Allora si tratta di usare la tecnologia in maniera giusta e innovativa e non seguendo semplicemente l’inerzia delle cose, senza rendersi conto di dove l’inerzia porti. Punto decisivo questo.

La grande notizia è che la tecnologia è una never ending story: ogni giorno c’è una piccola innovazione che cambia il campo di gioco (es. i comandi vocali); tecnologie che sembravano imperanti e imperiture d’un tratto si rivelano fragili (i portali e tutto il mondo web); i limiti di calcolo e di archiviazione che limitavano il potere dei piccoli d’improvviso vengono abbattuti (oggi il calcolo si sposta sul cloud). Detto in termini generali: le barriere tecnologiche s’abbattono, anche se potrebbero ricrearsi, in un altro modo, più avanti, ma intanto aprono prospettive a chi prima ne era escluso. Bisogna entrare in questo gioco da protagonisti.

C’è un modo diverso da quello attuale di far convergere l’infinita e continua produzione di informazione nel campo turistico in maniera differente da come avviene attualmente? Perciò in maniera indipendente dai grandi player globali; con informazione validata, cioè credibile e non preda di fake news e sorgenti improbabili non verificate; che sia rispettosa anche dei player più piccoli (l’artigianato di qualità; le piccole destinazioni; gli alberghi familiari e indipendenti; la ristorazione offerta dalle farm; le piccole produzioni vinicole e alimentari).

Si è molto parlato dell’overtourism prima della pandemia e adesso l’argomento ritorna con la ripresa dei viaggi. Si guarda al problema però in termini astratti, o peggio morali, come se fosse colpa degli over (cioè le persone in più) di essere over, senza poi dire come si eliminano gli over (con quale mezzo? Il prezzo, la burocrazia, come?), naturalmente senza pensare che chi scrive di over non sia esso stesso over: gli over sono sempre gli altri… Soprattutto non si pensa a cosa/chi ha creato l’overtourism, cioè su quali meccanismi è fondato. Certo che se il numero degli alberghi in Italia è sostanzialmente lo stesso da vent’anni, l’overtourism viene da altrove (dagli affitti brevi). Elementare.

Allo stesso modo incide, ma in maniera meno elementare, ma intuibile, il meccanismo del clickbait (il metodo per ottenere più click su qualunque cosa). Chi ha una piattaforma digitale ha l’obiettivo di ottenere attenzione e, appunto, click. Li ottiene, ad esempio, mettendo gli alberghi più attraenti per loro localizzazione ai prezzi più bassi possibile. Quello è il modo di procurarsi attenzione e click. L’utente, di fronte a un’offerta competitiva sulla parte più attrattiva (qui per attrattivo si intende come più noto: è un suo sinonimo) non si cura affatto di trovare altre localizzazioni. Questo crea un fortissimo corto-circuito: metto in vetrina il più noto; gli utenti sono attratti dal più noto, ecco di conseguenza che tutte le scelte si concentrano sul più noto. Il resto dell’offerta si perde nel vicolo della terza o quarta videata. 

Dato che il nostro Paese ha la fortuna, persino nelle destinazioni più famose, di avere una grande varietà di offerta, il meccanismo del clikbait lo punisce oltre ogni ragionevole misura. Si tratta allora di permettere anche ai player meno noti, ai luoghi meno noti, alle attrazioni meno note (basta vedere come nella cultura i primi cinque/sei siti facciano qualcosa vicina all’80% delle visite) di poter comparire sul piano dell’informazione e di conseguenza del mercato.

Tanto più che anche la domanda vorrebbe la distinzione, cioè vorrebbe vedere luoghi attraenti da scoprire, esperienze di viaggio meno ovvie e una personalizzazione delle sue scelte. Perciò l’offerta è talmente varia al punto che questa stessa varietà, nello scenario turistico globale, è il nostro carattere distintivo. La domanda chiede una non minore varietà, ma ci troviamo tutti davanti al prosciugamento vertiginoso e verticalizzante dell’universo turistico che si concentra nelle sue attrazioni più note. Possiamo permettercelo ancora?

C’è bisogno di un upgrade nel modo in cui è distribuita l’informazione: non servono, non bastano le liste di attrazioni, risorse, ecc., ma bisogna dare vita, soggettività e protagonismo a chi in Italia costruisce l’attrazione del Paese (gli operatori, chi organizza le visite, i ristoratori, i produttori del cibo di qualità, ecc.) attraverso meccanismi nuovi. Dal punto di vista tecnologico si può usare la tecnologia semantica che va oltre le classificazioni standard (fondate sulle keyword) per arrivare a comprendere il reale significato sia di chi esprime la domanda (l’ospite) sia di chi organizza l’offerta (gli operatori).

Solo se realmente capisco l’esigenza di chi viaggia riesco bene nell’impresa di proporgli esattamente quello che vuole. Dall’altro lato solo se capisco cosa davvero offre un ristorante riesco davvero a trovare il suo cliente perfetto. È passare dalla denotazione (come classifico in generale le risorse) alla connotazione (come una risorsa si distingue dall’altra): nessuno si accontenta (o cerca) la denotazione, ma tutti cerchiamo la connotazione. Detto in altre parole: nessuno cerca un ristorante in quanto tale, ma tutti si chiedono come mangiare bene.

Insomma, occupiamoci di questi temi, perché sono cruciali: siamo tutti impegnati nel far vincere l’Italia sul piano della realtà (la sua bellezza, la sua storia, i suoi paesaggi, la sua ospitalità), ma non possiamo non vincere la battaglia (anche) sul piano decisivo dell’informazione, che non è (solo) promozione, ma qualcosa di più complesso, come la sua traduzione simbolica, cioè la sua informazione, ovvero la realtà in cui tutti siamo immersi e dove si vince o si perde.

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