Coltivare integrazione socialeDalle aiuole sinergiche all’agricoltura biologica, la terra diventa luogo di inclusività

L’Associazione di promozione sociale “Gipa Fuori dalla Stanza” favorisce l’inserimento occupazionale di persone con disabilità mettendo a disposizione 5000 mq di terreno. L’idea nasce nel 2018 da Giancarlo e Raffaella Angelini, intenzionati a regalare a loro figlio e agli altri ragazzi uno spazio dove potersi incontrare ed esprimere le loro passioni

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Nella cornice verde dell’orto Silvanus – quartiere Giustiniana, a nord di Roma – la signora Raffaella fa lunghe pause prima di parlare. «Non è facile, stiamo condividendo un pezzo della nostra vita». Poi si avvia a passo cadenzato per la stradina sterrata che dal cancello porta al terreno coltivato.

La vista si perde su file di zucchine e pomodori, cespi di lattuga pronti a essere raccolti e fragole che fanno capolino dalle foglie tondeggianti. Raffaella posiziona una sedia sotto l’albero di noce e inizia a raccontare.

«Mio marito ed io abbiamo sempre voluto dare valore a quello che nostro figlio ci suggeriva, sostenendolo nei suoi talenti quasi a diventare dei filtri, un prolungamento delle sue gambe e braccia per aiutarlo ad arrivare dove da solo non poteva».

Raffaella e Giancarlo Angelini sono i genitori di Gianpaolo, detto Gipa, un ragazzo disabile che il 29 ottobre compirà 48 anni. Lui è pittore e artista – «si ispira guardando il quadretto di Venere che ha sopra al computer» dice la madre – e ha vicino parenti che gli danno una mano a coltivare le sue passioni. Nel vero senso della parola, perché Gianpaolo ha ereditato dal nonno Torello l’amore di lavorare la terra.

Per questo motivo, nel 2018 la sua famiglia ha dato vita a “Gipa Fuori dalla Stanza”, un’associazione di promozione sociale dedicata all’inserimento occupazionale di persone con disabilità. «La terra è uno dei primi elementi con cui l’essere umano è venuto in contatto e secondo noi rappresenta il luogo prediletto dell’incontro», spiega Giancarlo.

E allora, quando i coniugi Angelini si sono trovati davanti lo spazio incolto del campo si sono detti: «Perché no?». Hanno iniziato coltivando piccole porzioni di terreno, ampliandole man mano. Ora, nei 5000 mq del Silvanus, chi ha disabilità non viene assistito ma accolto «per essere orientato allo stare bene». L’orto diventa dunque il centro della conoscenza reciproca, dice Raffaella: «Ci piace considerarlo una piazza in cui potersi scambiare idee ed esperienze, mettendosi a disposizione l’uno dell’altro». Certo la pandemia ha interrotto tutto, da oltre un anno e mezzo non c’è più il viavai di ragazzi che imparano a lavorare il terreno, ne raccolgono i frutti o vengono solo per contemplare la natura.

Prima del Covid-19 erano una decina, tutti adulti e accompagnati dai loro assistenti. A scandire la giornata si susseguivano momenti di quotidianità condivisa, Raffaella ricorda con nostalgia quello della merenda.

Quando la famiglia Angelini guarda il percorso fatto finora, si accorge che è lastricato di episodi difficili: «Abbiamo fatto le nostre battaglie contro i muri, pretendendo sempre che nostro figlio venisse accettato non in quanto disabile ma come persona, senza pietismo». Per questo, dice Giancarlo, «vogliamo mostrare a chi compra frutta e verdura da noi che l’obiettivo qui è l’integrazione, non solo del disabile ma del diverso in generale».

È lo stesso principio ispiratore dell’agricoltura sinergica, un metodo di coltivazione praticato nell’orto Silvanus prima della transizione al biologico. Lo teorizzò l’agronoma spagnola Emilia Hazelip, con lo scopo di minimizzare i danni causati dai processi agricoli industriali.

Secondo Anna Fanton, presidente della Libera Scuola di Agricoltura Sinergica, «la nostra paura del diverso è immotivata, dovremmo invece imparare l’armonia dai prati e i boschi, luoghi in cui l’agente esterno non viene combattuto ma assorbito nel sistema».

In questa tecnica di coltivazione non si utilizza alcun prodotto chimico o naturale per combattere gli insetti nocivi e non è prevista aratura né compattamento del suolo, protetto da una copertura organica spesso fatta di paglia.

Tutto ciò richiede all’agricoltore un maggiore impegno nella fase di pianificazione e progettazione, ma riduce le migliorie e gli interventi successivi. «Sul terreno va eseguita una successione di semine e trapianti – spiega Fanton – e poi bisogna solo assicurarsi che le piante abbiano sempre luce a sufficienza e non siano danneggiate dalle erbe infestanti».

Un equilibrio da raggiungere senza ricorrere ad alcun prodotto esterno – sono ammessi solo i macerati, ovvero preparati naturali in grado di stimolare la crescita – perché «la sinergia tra suolo e piante rende fertile il terreno e aumenta la biodiversità».

Il metodo teorizzato da Emilia Hazelip riduce al minimo l’impatto ambientale (unica pecca poco sostenibile sono i tubi di irrigazione, progettati però per durare il più a lungo possibile) e prevede di mettere sempre tre famiglie di piante insieme.

Una di queste deve appartenere alle leguminose – ne sono un esempio i fagioli, fagiolini o piselli – in virtù delle sue proprietà azotofissatrici, ovvero in grado di arricchire il terreno di azoto grazie ai suoi residui vegetali.

Un’altra docente della Libera Scuola, Anna Benzoni, racconta che il microbiologo giapponese Masanobu Fukuoka, tra i pionieri dell’agricoltura naturale, definiva l’agricoltura «l’arte del non fare». È un po’ la filosofia alla base delle attività organizzate dall’Associazione di Raffaella e Giancarlo: «Mettiamo a disposizione dei ragazzi un luogo dove possono sentirsi liberi di incontrarsi, dipingere, anche non fare niente». Magari seduti all’ombra dell’albero di noce.

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