Sono sue? Sono un falso? Il mistero riguarda due opere attribuite al pittore olandese Johannes Vermeer, celebre artista noto per la resa, dettagliata ed equilibrata, delle sue figure e della luce che le accarezza. Si tratta della “Fanciulla con cappello rosso” e della “Fanciulla con flauto”, entrambe conservate alla National Gallery of Art di Washington.
Il primo conserva, secondo i critici, i tratti fondamentali dello stile del pittore, ma è insolito per dimensioni (molto piccolo) e supporto (pannelli di legno anziché tela). Il secondo è attribuito a Vermeer «con molta cautela», chiarisce il museo sul suo sito. Non è giudicato da tutti all’altezza del pittore e potrebbe essere il tentativo di un imitatore. Tuttavia ha molte somiglianze con il primo, per cui – logica vuole – se fosse un falso, allora anche la “Fanciulla con cappello rosso” tornerebbe in discussione.
Come spiega questo articolo del New York Times, la risposta a questo dubbio potrebbe venire presto, e grazie alla tecnologia. Si tratterebbe della spettroscopia per immagini a riflettanza, una tecnica che permette di individuare i materiali usati nei pigmenti della pittura (come zinco, piombo e rame), definirne gli strati coperti e ottenere una sorta di impronta digitale atomica. È una tecnica usata per gli aerei di ricognizione, dagli scienziati che studiano Marte o dai medici che vogliono studiare le composizioni di un nuovo farmaco. Ora anche alla storia dell’arte.
Grazie alle chiusure imposte dalla pandemia, l’esperto di imaging del museo, il professor John K. Delaney, ha potuto con la sua assistente Kathryn Dooley passare in rassegna indisturbato tutti i dipinti di Vermeer esposti al museo, sottoporli allo scanning e definire tutti gli strati di colore sotto la superficie, con l’obiettivo di individuare una precisa tecnica pittorica adottata da Vermeer.
La stessa tecnologia – sviluppata in Italia, come ricorda al giornale americano il ricercatore Marcello Picollo dell’Istituto di Fisica Applicata di Firenze – era già stata impiegata per dirimere altre questioni. Ad esempio l’esperto del ramo pittura italiana e spagnola del museo di Washington aveva chiesto di esaminare “Il festino degli dèi” di Giovanni Bellini, opera del XVI secolo che rappresenta una scena mitologica con le divinità del pantheon classico. Un dipinto su cui aveva lavorato, in seguito, anche uno studente del Bellini, cioè Tiziano.
L’analisi spettroscopica, condotta sempre da Delaney, ha messo in luce gli interventi successivi. Tiziano aveva nascosto, con una montagna, alcuni alberi dipinti da Bellini e l’analisi ha permesso di ricostruire – come richiedeva il critico – anche quali fossero, mettendo in risalto i tratti delle foglie.
Per il Getty Museum, invece, ha portato alla luce una figura nascosta sotto il “Vecchio in costume militare” di Rembrandt. La scoperta risale al 2015: gli esami a raggi X hanno permesso di far riemergere un volto, ruotato di 180 gradi rispetto al dipinto in superficie. Un ritratto che, secondo alcuni studiosi, rappresenterebbe lo stesso pittore. Inoltre la tecnica ha anche permesso di ricostruire il colore originale degli “Iris” di Vincent Van Gogh.
E con Vermeer? Per il momento non ci sono analisi definitive. Ci sono alcune anomalie, hanno riconosciuto, che per il momento invitano alla prudenza. Ma qello che i due studiosi hanno scoperto, dopo i mesi passati a scannerizzare i dipinti riconosciuti, è la tecnica usata dal pittore. Nonostante l’estrema cura per il dettaglio che si vede nell’opera definitiva, le prime pennellate di Vermeer erano rapide, abbozzate, seguivano solo da lontano la forma finale. Cominciava con molta fretta e poi, nel prosieguo, lavorava in modo sempre più fino. Un dato che, nel deserto di informazioni che riguarda Vermeer, è molto prezioso.