Quello che cerca è un impiego «vicino a casa» e con «mansioni semplici». Qualcosa che la coinvolga il meno possibile, che non la obblighi a leggere e che sia sul livello di contare «i piccioni sul filo della luce» o le auto dello stesso colore che passano nella stessa strada. La protagonista (che rimarrà senza nome) di “Un lavoro semplice” (Marsilio), romanzo della giapponese Kikuko Tsumura scritto nel 2016 e arrivato ora in Italia, è giustificata: si è appena ripresa da un esaurimento nervoso, dopo aver lavorato per 14 anni.
Nei mesi di buio era tornata a vivere dai genitori (dove cerca di pesare il meno possibile) e non ha più lavorato, almeno fino a quando non è finito il sussidio di disoccupazione. È da lì che, senza ambizioni, senza amici e come sostegno solo un consulente del lavoro, comincia a cercare impieghi il meno impegnativi possibile. E così prima viene messa a controllare (spiare?), con una telecamera nascosta, la vita monotona di uno scrittore che aveva ricevuto, senza saperlo, del materiale di contrabbando. Ma è un lavoro con i suoi rischi, e sceglie di cambiare. Eccola che scrive annunci pubblicitari da trasmettere in autobus. E poi – altro impiego – che diventa l’autrice dei testi sul retro delle confezioni di una ditta di cracker. Di nuovo, lascerà per mettersi ad appendere cartelloni pubblicitari in città (mai specificata) e sorvegliare un parco.
Ogni tappa è accompagnata da eventi bizzarri, a volte sinistri, a volte magici – la signorina Eriguchi, dell’agenzia pubblicitaria, aveva davvero il potere di creare aziende inventandone la pubblicità? E cosa sono quelle stranezze che avvengono nel bosco? – che distolgono dall’atmosfera di oppressione silenziosa che accompagna il libro. Tsumura in più lo riempie di dettagli non necessari: ogni osservazione è meticolosa – fino a documentare il prezzo del tè nel konbini a due passi dal primo lavoro fino ai dettagli – e ne tradisce la tendenza nevrotica. Le giornate sono affaticate, i lavori scialbi ma il ritmo, riempito dai suoi pensieri, non cala mai.
Ritrovare nella protagonista la voce dell’autrice è una tentazione. Anche Tsumura, subito dopo la laurea, era stata costretta a lasciare il lavoro per harassment nel 2000 – in Giappone hanno codificato in merito ben tre tipologie: quella morale (mora-hara), quella sessuale (seku-hara) e quella di potere (pawa-hara). Da quell’esperienza è scaturito il suo interesse per la letteratura aziendale. Dieci anni dopo, lascerà il suo lavoro da impiegata e si dedicherà alla scrittura.
Quello che descrive è l’universo dei lavori-non lavori del sottobosco nipponico, impieghi borderline che non si capisce bene se siano occupazioni vere o no. Nella varietà alcuni schemi si ripetono: capo uomo, sbrigativo e disinteressato, colleghe donne, con cui (a volte) si formano legami di intesa. Senza mai andare oltre, però: c’è la riservatezza di mezzo (molto giapponese) ma anche ostacoli classici, come la rivalità e l’indifferenza.
Ogni nuovo mestiere è anche pretesto per raccontare luoghi e situazioni diverse, fotografie pallide di un Paese bloccato: c’è la solitudine (e l’associazione che la sfrutta per accaparrarsi denaro), c’è la fatica estenuante sul lavoro (e la necessaria volontà di fuga che si risolve nell’esilio), c’è la diffusa ignoranza, vissuta con sofferenza da adulti che si vedono superati dai propri figli. Ogni volta, però, si ripropone lo stesso scenario, con il mondo aziendale che comincia a cambiare intorno alla protagonista senza che possa fare nulla, né lei né i suoi colleghi. È la mancanza di controllo – sulle proprie vite, sulle conseguenze di ciò che si fa sul posto di lavoro – che disorienta. Tutto intorno gira, cambia e piano la travolge.
L’aspirazione inziale – qualcosa di semplice, facile, prevedibile – viene sempre delusa, in parte perché, proprio a causa sua, le cose vanno a complicarsi. Sembra che a ogni impiego decida di mettere di più di quanto volesse all’inizio (memorabile la frase del suo capo dei cartelloni: «Lo sai che non c’è bisogno di impegnarsi così tanto, vero?»).
È la trappola, il circolo vizioso che si rimette in moto ogni volta e conduce la storia a ripetersi, ogni volta peggio, ogni volta con paghe più basse, vicende più astruse e una tristezza più pesante nel cuore.