Geoff Dyer fa quello che tutti noi che leggiamo e scriviamo vorremmo: scrive di quel che gli pare e piace e riesce a farsi pagare bene quel che scrive. Ci vuole talento. Ha due fortune: è cittadino della lingua inglese, che gode di una certa diffusione, e ha capito presto un paio di cose importanti. La prima è che doveva lasciar perdere il romanzo visto che (sorry, Mr. Dyer) non sa dar figura a un grande personaggio; la seconda che al suo interesse per la fotografia e l’arte figurativa non corrispondeva l’attitudine agli immani fumi e minimali arrosti della critica classificata. In più, aveva a portata di lettura John Berger, che aveva riportato il saggio dentro l’alveo naturale della narrazione. Voilà. Non serviva altro, a un giovane dotato d’estro come Dyer.
Ora il Saggiatore pubblica per noi il libro più dyeresque che si possa immaginare: “Per pura rabbia”, la cui edizione originale rimonta al 1997. Dove si dice del Nostro indeciso tra lo scrivere «un sobrio saggio accademico» su D. H. Lawrence, i cui libri (ma non i romanzi) l’hanno spinto verso la scrittura, e un romanzo bernhardiano. (Per fortuna il romanzo sparisce dall’orizzonte della volontà dell’autore – e così sia). Come a dire il libro più libro-da-leggere per chi legge i libri e poi deve scriverne ecc.
Succede che, ideato per «darsi una regolata» riguardo a una tendenza alla distrazione che angustia l’autore, il lavoro (?) finisce per «sregolare la cosa, il libro» finendo con assumere «quell’indole disattenta dalla quale avrebbe dovuto distrarmi, cioè la mia» – insomma, col diventare uno degli irresistibili, inequivocabili libri di Geoff Dyer.
Disattenzione nel mondo di Dyer significa una attenzione ossessiva per se stessi e la conseguente perenne irritabilità, una congerie di idiosincrasie alimentari da testa contro il muro (detesta i ricci di mare e – perdonalo, mio Signore – odia il tonno), un catalogo di acciacchi e disfunzioni che sono preludio a lagnanze e lamenti assortiti.
Cosa fa un inglese in fuga dalla «tetra scogliera» che è (umido, umido…) suolo natio e madre di distopie e malmostose scrittoresse? Ma dell’autoironia, perbacco, quella sublime forma di snobismo che permette di trasformare il saggio su D. H. Lawrence in «una storia clinica», quella di uno scrittore freelance in blocco che lascia Parigi per Roma, dove l’aspetta la «quasi-moglie» Laura (donna meritevole di un discorso a parte), che lo accompagna sui luoghi lawrenciani ecc: Taormina, Taos, «la bestiale Oaxaca» ma anche la spiaggia di Zipolite, una sorta di «Anarcho-Eden-on-sea».
Succede di tutto, naturalmente. A partire da una delirante convalescenza romana seguita a un incidente in motorino su un’isola greca e un viaggio in treno verso Taormina che offre l’occasione di una fulminante polaroid dell’Italia («Vengono promulgate di continuo nuove leggi che non cambiano praticamente niente. Il loro scopo è esattamente quello di generare dibattiti, di dare alle genti italiche un’opportunità di esprimere una vivace opposizione allo Stato, talmente unanime da creare un’atmosfera solidale di unità e benessere nazionale» – ed era il 199…), dove istantanee fulminanti («un uomo robusto, il genere d’uomo che di solito nei libri viene chiamato “un tizio”») e azzurre locandine di humour («Il mare: lo guardi un po’, perdi interesse e poi, siccome non c’è altro da guardare, ricominci a guardarlo») si alternano alla rappresentazione dei garbugli esistenziali dello scrittore freelance. (Garbugli che sono il risultato di un largo giro intorno alla disperazione in agguato).
Intanto lui, il Nostro, scopre di essere interessato più alle fotografie di Lawrence che ai suoi libri, più al suo epistolario (sette volumi!) che a rileggere i suoi romanzi (come non acconsentire), di voler venire a capo di una foto di Lawrence che prende tutta l’attenzione del saggista renitente, e così intanto scrive un “Ritratto dell’autore come scrittore freelance” di strepitosa freschezza e petulanza. Questo è il punto, per lo scrittore Geoff Dyer: ha il talento di trasformare petulanza e rabbia in letteratura. Esattamente come D. H. Lawrence.
Torniamo a una citazione in esergo: «Per pura e semplice rabbia ho cominciato a scrivere il mio libro su Thomas Hardy. Parlerà di tutto salvo che di Thomas Hardy, temo – pagine strane – non male». È Lawrence a scrivere, ma sostituite “Thomas Hardy” con “D. H. Lawrence” e la citazione diventa di Geoff Dyer e dice quel che deve.
La rabbia è quella dell’inglese che toccata l’età della ragione, come tutti gli inglesi dotati di senno, lascia la madrepatria e inizia una carriera di vagante con nostalgia (l’unica) della tv nativa. (Sindrome che si acuisce a Roma, Italia). Non certo di Oxford, detta il Mortorio, «avvolta in una nuvola di stupidità, di estrema fatica mentale, per via di tutti gli accademici di scarso ingegno che qui fanno le loro ricerche a badilate, scavando la fossa alla letteratura». Ebbene, dove finisce con l’acquistare una casa, il Nostro? Ma al Mortorio, naturalmente. Il seguito lo lascio al lettore – e, (imprecazione), non ho più lo spazio per dire di Laura: meglio così.