«Ha un bel paio di gambe» è stato il primo pensiero sul romanzo di Calligarich, quando ho chiuso il libro. Sì, ha la freschezza sorniona di una giovane signora che esce dopo le dieci di mattina (senza cane, grazie a Dio) in giacca corta e gonna uguale, tacco basso Chanel, e un compasso di gambe snelle e fresche di giornata. Con una bella storia in ponte, come quella di “L’ultima estate in città”. (Il libro vanta una curiosa storia editoriale – la si trova raccontata nella Notizia dell’Editore – culminata nello strepitoso successo in Francia, chez Gallimard, uscito a febbraio, e con pubblicazione prevista in agosto negli Stati Uniti, da Farrar, Straus & Giroux, come a dire il meglio). Tutto per quel bel paio di gambe.
Succede che “L’ultima estate in città” è un notevole esemplare di quegli agili romanzi nell’aria del tempo che nessuno sa più scrivere: romanzi senza ambizioni di eternità e nel segno dello scorrere dei giorni, sul filo teso allo spasimo della voglia di vivere e nell’intrecciarsi dei rivoli che si perdono nella sabbia della necessità (a quegli anni già stravolta in nevrosi), nel flusso dell’alcol che circola in permanenza e nella scia dell’amore, il fantasma e il bagliore. Insomma, un romanzo nella scia (sì, ancora) del modello insuperato e insuperabile del genere: “Bonjour tristesse”, di Françoise Sagan, che meriterebbe una nuova lettura.
Roma, verso la fine degli anni della Dolce Vita, quando da Rosati siedono i nuovi arrivi («Credono di essere noi», la battuta di Ennio Flaiano) e muovono i primi passi i pittori della Scuola di Piazza del Popolo – e lei, Marina (già Maria Elide Punturieri, poi Lante della Rovere e infine Ripa di Meana: chi altro?). Lì si muove Leo Gazzarra, protagonista e alter ego dell’autore, che ama il mare, le spiagge non popolate e non sa che pesci pigliare. È finito a Roma per quello – per il mare e per non sapere.
Lavora saltuariamente, beve bene e molto e si è fatto degli amici («tutta gente che vagava come me, intellettuali più che altro, con l’attesa negli occhi e la faccia da rifugiati»). Dove l’attesa è pane e companatico e intanto si diventa commestibili per «la belva», Roma. («Così anche voi, giorno dopo giorno, aspettando, diverrete parte di essa. Così anche voi nutrirete la città. Finché in un giorno di sole, fiutando il vento che viene dal mare e guardando il cielo, scoprirete che non c’è più niente da aspettare»). Esistenzialismo e vecchi merletti.
Entra Arianna, una di quelle giovani donne destinate all’ammirazione e al disincanto precoce. Veneziana patinata di belle vocali e studentessa d’architettura in transito da Roma, vanta già il ricovero in clinica per malattie nervose (indispensabile allora, per il pedigree), alcuni vezzi apotropaici e un bagaglio di capricci e stranezze che manco Jean Seberg. Capelli lunghi e neri, efebica, con bocca da passarci il tempo e un sorriso «come una bastonata», strizzata in un impermeabile di plastica rossa. Insomma, la perfetta eroina esistenzialista, tra Anna Karina e Sonia Petrov(n)a, la nemesi di Alain Delon nel film “La prima notte di quiete”, che è del 1972. E anche Arianna, come la Vanina del film, farà il suo.
Intanto Calligarich ci offre una memorabile fotografia di gruppo, con i drappelli di intellettuali succhiatori di pipa in abito blu che popolano il palazzo della RAI, fissa per sempre la triade Intellettuale-Roma-RAI («E adesso che cosa ti promettono? disse [l’amico Diacono] riferendosi ai giornali di sinistra per i quali aveva lavorato prima di entrare alla televisione (…) Un posto alla televisione, ecco cosa ti promettono, non di certo la rivoluzione. Bene, io non ho fatto altro che anticipare i tempi») e delinea un memorabile personaggio in Graziano Castelvecchio, l’unico consanguineo di Leo, un europeo con cittadinanza nella lingua italiana che si è venduto alla ereditiera atlantica in cambio dei conti aperti in tutti i bar con barman dell’Urbe e a una sfilata di abiti in lino irlandese bianco (il bianco sfatto e lowriano del lino irlandese), che decide di scendere prima del capolinea. Le ultime pagine con in scena Graziano sono indimenticabili.
Il romanzo esistenzialista di Calligarich non anela all’assoluto, all’azzurro del cielo di Tipasa in Camus e nei quadri di Nicolas De Staël: il registro è quello dell’elegia, a cui il basso del passato remoto regala profondità, e i colori sono i coloniali di Roma.
Il segreto del libro è una grazia tutta peculiare, naturale, a cui non giova un certo gigioneggiare di Leo nei dialoghi: grazia che è antidoto al male letterario nazionale: il Patetico. Leo Gazzarra è un decoroso portatore della disperazione di quegli anni ancora pervasi di grazia, freschezza e buoni odori: il mare, il vento e il buon whisky.
Così vale tornare all’incipit del romanzo: «Del resto è sempre così. Uno fa di tutto per starsene in disparte e poi un bel giorno, senza sapere come, si trova dentro una storia che lo porta dritto alla fine» – succede, ma c’è modo e modo di arrivarci.