Mezzo vuotoCosì il cambiamento climatico distruggerà il vino italiano (a favore di quello inglese)

L’innalzamento delle temperature ha già cominciato a incidere nella qualità e nella quantità della produzione nel nostro Paese. Come scrive Fabio Deotto nel suo “L’altro mondo” (Bompiani), bastano pochi gradi per cambiare il sapore del prodotto e condannare un’intera economia

di Monica Silva, da Unsplash

Con i suoi 50 milioni di ettolitri annui, l’Italia è oggi il primo produttore di vino al mondo, un settore che da solo smuove 11 miliardi di dollari ogni anno. Si tratta di un mercato in crescita, ma questo non significa che il primato italiano sia così solido. Tra tutti i prodotti agricoli, infatti, il vino è uno dei più sensibili alle ricadute dei cambiamenti climatici, e già oggi molti produttori si trovano costretti a cambiare strategie di coltivazione consolidate da decenni, ma che da qualche anno si stanno rivelando inefficaci ad assorbire l’impatto dell’aumento di temperatura e del cambiamento delle piogge.

Nel primo pomeriggio ho appuntamento proprio con un produttore vinicolo, se non voglio arrivare tardi devo sbrigarmi. Spingo il mio carrello semivuoto fino alle casse, pago e mi metto al volante. Sul navigatore imposto come destinazione Camignone, un paesino in provincia di Brescia, nel cuore della Franciacorta.

La prima cosa che noto, una volta uscito dall’area metropolitana di Milano, sono i campi. Superata Melzo l’autostrada si srotola su grandi distese piatte che oscillano tra il giallo paglierino delle piantagioni di mais appena raccolto e il marrone dei campi dissodati in attesa della semina. Sono passate due settimane da quando sono stato a Trieste, e le storie dei migranti pakistani faticano a uscirmi di testa. Se molte persone sono costrette ogni anno a lasciare il posto in cui sono nate, infatti, spesso è perché la terra su cui basavano il proprio sostentamento non è più in grado di dare frutti.

L’agricoltura è uno dei settori in cui le ricadute dei cambiamenti climatici si fanno sentire di più, e la crisi produttiva è una componente fondamentale della combinazione di fattori che innescano le migrazioni. Sarebbe un errore tuttavia pensare che il problema riguardi soltanto i terreni riarsi del Medio Oriente e dell’Africa subsahariana: sotto la scure della crisi climatica infatti stanno finendo campi di ogni tipo, compresi quelli che hanno fatto da sfondo alla nostra infanzia.

Rispetto a cento anni fa, le temperature medie in queste zone sono già aumentate di oltre 2 gradi, il che naturalmente sta avendo ricadute sull’agricoltura, in special modo nella Pianura padana. Piove sempre meno e ai periodi siccitosi si unisce una portata ridotta del Po e di altri fiumi, dovuta a una minore presenza di neve a monte.

Ma fosse solo questo il problema, ci si potrebbe trovare rimedio: gli agricoltori potrebbero scegliere varietà precoci o tardive, più o meno resistenti, a seconda delle precipitazioni previste. Il punto è che con l’aumento delle temperature le precipitazioni sono diventate imprevedibili; lunghi periodi di siccità si alternano ad altri in cui piove in modo talmente intenso e irregolare che i raccolti vengono danneggiati e diventa talvolta impossibile coltivare. Negli ultimi dieci anni si è registrata in queste zone una perdita di 14 miliardi di euro a causa di eventi estremi. E la curva è destinata a impennarsi, al punto che se non si troverà una soluzione, di qui a qualche decennio non converrà più coltivare alcune delle varietà oggi tipiche del paesaggio che scorre fuori dal mio finestrino.

Via via che mi avvicino a Bergamo, la schiena piatta della Pianura padana si inarca a formare colline e avvallamenti, sparuti cocuzzoli ospitano sempre un paesino o un castello, piccoli insediamenti che sembrano essere stati sorpresi da un innalzamento improvviso del suolo, quasi la terra si fosse gonfiata dalla notte al giorno, isolandoli dal resto del paesaggio. Proseguendo verso Brescia le gobbe si fanno sempre più alte e alle case si sostituiscono le schiere ordinate e imbrunite delle vigne, cotte dall’ennesima estate impietosa.

In queste zone si coltiva la vite almeno dal XV secolo, quando alcune casate nobiliari cominciarono a edificare ville sulle verdi colline comprese tra Brescia e il lago d’Iseo e a incorniciarle con vitigni. Ma è solo a partire dagli anni sessanta del Novecento che le coltivazioni vinicole si diffusero in modo massiccio in questa zona. Tra le varie famiglie che in quel periodo decisero di investire nella produzione di vino ci sono i Barbagliano, che oggi gestiscono una delle cantine più note della Franciacorta.

Arrivo al cancello della tenuta Mosnel poco dopo pranzo, scendo dall’auto e mi ritrovo immerso nel tepore umido di un ottobre ben poco autunnale. Nonostante la bassa stagione e le restrizioni dovute alla pandemia, nello spiazzo di ghiaia adibito a parcheggio ci sono diverse auto con targa straniera.

All’ingresso, una sommelier mi misura la temperatura e mi accompagna a un porticato costellato di tavoli di legno, alcuni dei quali occupati da visitatori intenti a degustare calici di brut, satèn e pas dosé. Pochi istanti dopo una porta si apre e ne esce un uomo alto, sulla cinquantina, accompagnato da un tizio segaligno dai modi svelti. Giulio Barzanò ha ereditato l’azienda dalla madre e oggi la gestisce insieme alla sorella Lucia. Ha un modo di fare deciso ma affabile, e dopo i convenevoli di rito mi invita a sedermi a uno dei tavoli liberi del portico. L’altro è Flavio Polenghi, il responsabile tecnico della cantina (o “enologo in house” per utilizzare una terminologia più alla moda).

Oltre il parapetto di legno che cinge il portico si allungano i loro 40 ettari di vigne, e la prima cosa che mi viene da chiedere è come se la stiano passando, quelle piante, in queste condizioni climatiche.

«Negli ultimi anni le cose sono cambiate, poco ma sicuro», esordisce Polenghi. «Ora mediamente raccogliamo le uve intorno alla metà di agosto, una cosa che trent’anni fa sarebbe stata impensabile. Una volta si vendemmiava a fine mese, a volte anche inizio settembre».

Le ragioni sono abbastanza ovvie: le temperature aumentano e l’uva matura prima, quindi bisogna anticipare la vendemmia. Non mi è ancora chiaro però perché questo costituisca un ostacolo insormontabile.

«Il problema è che si verifica un disallineamento tra la maturazione fisiologica della pianta e quella tecnologica», mi anticipa Polenghi. «Il rischio è di vendemmiare un’uva con alto contenuto di alcol e zuccheri, e una bassa acidità». Si riferisce al complesso processo di maturazione degli acini d’uva che, in maniera forse poco intuitiva, segue diverse linee di crescita. Si parla di «maturità fisiologica» quando l’uva ha completato il processo di maturazione oltre il quale inizia a perdere acqua, concentrando nell’acino i nutrienti; di «maturità tecnologica» quando ha raggiunto un rapporto zuccheri/acidità adatto alla vinificazione. Di solito la maturità tecnologica si ottiene prima di quella fisiologica, e il frutto può essere vendemmiato prima che accumuli troppi zuccheri. Con l’aumento delle temperature questo ordine viene invertito, così oggi i viticoltori della Franciacorta devono trovare il modo di rallentare la maturazione dei grappoli per evitare che perdano in acidità e guadagnino troppo in alcol.

«Si possono utilizzare tecniche diverse, e tutte cercano di rallentare la fotosintesi e dunque la maturazione. Qualcuno usa reti ombreggianti, altri distribuiscono antitraspiranti sul grappolo, noi ci affidiamo alla sfogliatura e alla cimatura, andando a rimuovere le foglie più attive nella fotosintesi e riducendo l’umidità attorno ai grappoli».

Oltre a queste misure, orientate a risolvere il problema nel breve termine, Barzanò e Polenghi si stanno preparando a un futuro prossimo in cui probabilmente la sfogliatura non basterà più a contenere una maturazione fuori controllo. «Da qualche anno si sta recuperando questo antico vitigno autoctono, l’Erbamat, che ha la particolarità di avere un pH basso anche a maturazione, e quindi potrebbe essere utilizzato per correggere l’acidità nei nostri vini».

Non sarebbe la prima volta che delle circostanze climatiche inaggirabili portano allo sviluppo di una nuova varietà di vino. Lo stesso champagne, del resto, è nato anche dalla necessità di correggere una maturazione lenta in territori caratterizzati da temperature troppo basse. L’idea che un’azienda vinicola possa sopravvivere al cambiamento climatico sperimentando nuove combinazioni e facendo di necessità virtù ha una sua poesia, ma per quanto possa suonare facile sulla carta, si tratta di un adattamento laborioso e complicato. «Se hai sbagliato la qualità di frumento, l’anno dopo ne puoi piantare una varietà più adatta. Con i vitigni non lo puoi fare. Per dire: noi abbiamo piantato un ettaro di Erbamat l’anno scorso, dal prossimo cominceremo a lavorarlo, ma solo fra vent’anni sapremo se siamo stati lungimiranti».

Polenghi si sistema la mascherina e nel suo sguardo indovino un sorriso amaro. Barzanò intanto ammira le sue vigne. Alla destra della balaustra, spostandosi verso le colline, i filari si allungano parallelamente alla strada che ho fatto per arrivare qui, e a un certo punto si aprono, creando un corridoio erboso che porta a una piccola montagnola di pietre. È un richiamo al cumulo sassoso presso cui sorgeva in origine la cantina (mosnel, in dialetto, significa «pietraia»). Mi chiedo che aspetto avesse questo posto quaranta o cinquant’anni fa, quando Barzanò ancora doveva ereditare l’azienda di famiglia. «Avevo vent’anni nel 1985, quando c’è stata la grande nevicata», dice, «della mia infanzia e dell’adolescenza ricordo quello: la neve, ma anche la nebbia, e una varietà di piante ed erbe che ora sono sparite, o sono state rimpiazzate».

Dal 2014 l’azienda è passata alla coltivazione biologica e ha cominciato a interessarsi della salute del suolo. L’inerbimento dei filari va in questa direzione: la presenza di un manto erboso infatti consente un miglior assorbimento dell’acqua (fondamentale in un territorio che a volte rimane a secco per settimane), fornisce un ambiente adatto alla crescita della microfauna, aiuta a preservare la biodiversità del suolo e garantisce una maggiore cattura di CO2 dall’atmosfera. Queste misure nel breve termine consentiranno di continuare a produrre vino anche in un mondo più caldo, ma sia Barzanò che Polenghi sanno che sul lungo termine potrebbe non essere sufficiente.

Per farsi un’idea del cambiamento in atto basta dare un’occhiata a una delle tante mappe che illustrano lo spostamento delle zone che offrono condizioni ideali alla viticoltura: dagli anni novanta a oggi si è cominciato a produrre vino in zone un tempo impensabili, come il Belgio, la Danimarca, alcune parti della Scandinavia, il Sud dell’Inghilterra; parallelamente sta accadendo qualcosa di simile nell’emisfero australe, in Cile e in Patagonia. Non passerà troppo tempo prima che lo spumante inglese arrivi a far concorrenza alla produzione sempre più complessa e faticosa della Franciacorta.

da “L’altro mondo. La vita in un pianeta che cambia” di Fabio Deotto, Bompiani Overlook, 2021, pagine 336, euro 19