La transizione ecologica «potrebbe essere un bagno di sangue». Il ministro Roberto Cingolani, in un’intervista alla Stampa, lo spiega: «Quella è una mia frase che Grillo ha poi ripetuto. Vuol dire che per cambiare il nostro sistema e ridurre il suo impatto ambientale bisogna fare cambiamenti radicali che hanno un prezzo. Di conseguenza dovremo far pagare molto la CO2 con conseguenze, ad esempio, sulla bolletta elettrica».
E a Grillo che dice di non essere soddisfatto e che dal suo ministero si aspettava di più, risponde: «Io sono un tecnico scelto dal presidente del Consiglio. Le critiche sono utili, sicuramente avrò fatto scelte non andate in una certa direzione e altre all’opposto. Non ho un partito alle spalle, sto cercando di interpretare il mio servizio in modo che sia utile al Paese. La politica dà delle priorità, io cerco di assecondarle tutte».
Però, avverte, il cambiamento non può essere realizzato entro il 2026, data di scadenza per la spesa dei fondi del Recovery Plan. «Il progetto è quello di arrivare a un continente a impatto zero sull’ambiente entro il 2050», dice. Ma comunque «abbiamo pochissimo tempo. La riuscita del progetto dipende da come spenderemo i fondi nei prossimi sei anni. Se li spenderemo bene avremo la possibilità di centrare l’obiettivo. Se li spenderemo male o non li spenderemo perderemo la competizione con gli altri Paesi. I prossimi sei anni sono come il primo stadio di un razzo. Se lavora bene il razzo raggiungerà la Luna. Se lavora male il razzo finirà fuori orbita».
Ma l’Italia da sola non basta. «Il problema non è solo se noi raggiungiamo l’obiettivo della transizione energetica e ambientale. Il problema è se ci riusciamo tutti insieme», dice.« Noi siamo solo una parte dell’Europa e l’intera Europa emette solo il 9 per cento della CO2 del mondo. Il resto dell’inquinamento viene da altri Paesi e altri continenti. Se non riusciremo a convincerli, a impegnarsi anche loro, anche i nostri obiettivi saranno a rischio. Noi comunque dobbiamo impegnarci a fare fino in fondo la nostra parte».
Il primo obiettivo a cui sta lavorando l’Italia è quello della «mobilità sostenibile. Che prevede un cambio di infrastrutture e di sistemi produttivi molto significativo». Il programma è di aggiungere 29mila colonnine per le auto elettriche a quelle attualmente esistenti. «Ma non si tratta solo di questo. Dobbiamo diventare autosufficienti dal punto di vista della produzione delle batterie». Mentre l’area torinese vorrebbe installare a Mirafiori la gigafactory per la produzione delle batterie, e l’area di Melfi avanza la stessa richiesta, Cingolani dice: «Il governo pensa che sia un bene per l’Italia che la gigafactory si faccia in Italia. Dove costruirla dipende dalle scelte dei produttori, in questo caso Stellantis, e dei territori interessati. Da una parte ci sono aree come quella di Torino che hanno le competenze e una tradizione consolidata nel settore dell’auto. Dall’altra ci sono territori nel Sud che hanno seri problemi di riconversione del loro impianto produttivo».
E poi, aggiunge, «dobbiamo avere il coraggio di accettare alcuni cambiamenti come necessari. Sulle grandi distanze uno dei maggiori problemi è stato avere troppa mobilità su ruota, anche per il traffico merci, quindi un utilizzo intelligente del traffico su ferro è una parte importante della soluzione. Gli investimenti sull’alta velocità sono importanti per questo». Per questo dice, andrà «volentieri» a visitare il cantiere della Tav. «Mi incuriosisce anche vedere le mega talpe al lavoro».
Un altro tema divisivo è quello dell’acciaio. «Quello della transizione delle acciaierie è un problema molto urgente», ammette il ministro. «Pensiamo di passare dalle fornaci a carbone a una fornace alimentata a gas, quindi con dei forni elettrici e già questo abbatte la CO2 del 30%». Il governo sta lavorando «per convertire anche le grandi acciaierie come l’Ilva. Certo per fare questo l’Europa ci dovrà dare una mano perché se noi produciamo un acciaio buonissimo, verde, che costa di più, e poi qualche altro Paese lontano ci vende acciaio non verde a basso costo, bisogna compensare. È un problema di geopolitica e di accordi internazionali».