Verso la guarigioneAppunti per rifondare la medicina

Alla ricerca di nuove basi per riformulare i concetti di malattia e salute, gli autori Gianpaolo Donzelli e Pietro Spadafora indagano le nuove strade, aperte dalle tecniche e dalle tecnologia, in cui evolverà il senso della cura e del rapporto tra dottore e paziente

di Bermix Studio, da Unsplash

Se ci voltiamo indietro, partendo dai confini verso i quali ci siamo spinti, nella visione di insieme che adesso siamo in grado di cogliere, restano visibili solo le cose più essenziali.

Su quelle cercheremo di concentrarci in questo capitolo, non per questo volendo mettere la sordina ai tanti problemi spiccioli e agli intralci quotidiani che la professione della cura affronta ogni giorno, forse perché più esposta, per la sua unicità ed essenzialità, a critiche e pretese.

Un ritorno alle origini

Dobbiamo subito confessare che, mentre scrutiamo questa medicina inedita, sentiamo in noi rafforzarsi l’idea che la nuova medicina, per alcuni versi, è anche un ritorno alle origini.

Il medico inedito rimane pur sempre il cultore di un’arte in qualche modo infungibile e in cui alcuni tratti restano insostituibili, connaturati. Allorquando chi ha l’obbligo della cura se ne allontana trascurandoli, allora costui conserva il camice bianco, ma sta facendo un altro mestiere. Quanti medici oggi praticano un esame obiettivo, fatto di ispezione, palpazione, percussione, auscultazione del corpo del malato?

Ebbene, il medico inedito dovrà valorizzare questi aspetti del mestiere tanto più la tecnologia interverrà nel ciclo diagnosicura. Più dei laboratori, è bene che il medico abbia familiarità con il letto del malato. Avendone, oltre tutto, anche il tempo, quello che si libererà proprio grazie al supporto della tecnologia. Questi tratti o abilità del mestiere sono ciò che mai nessuna macchina potrà fare: il tocco confidenziale dell’indagine, lo sguardo non più autoritario ma autorevole, la sincera rivelazione che la medicina, operando in un mondo imperfetto, è anch’essa imperfetta.

Una macchina, collegata a un circuito elettronico, non potrà mai apparire confidenziale, auscultare premurosa il paziente, né un monitor apparire autorevole. Per non dire dell’impossibilità di una macchina di confessare i propri limiti o errori. Proprio quello che succede, con esiti disastrosi, al super calcolatore Hal serie 9000 nel film di Stanley Kubrick “2001: Odissea nello spazio”, capolavoro che certamente ricorderete.

Affermare questo ritorno alle origini è il modo più efficace per opporsi ai rischi che abbiamo prima elencato, per rifiutare l’idea del paziente ibrido uomo-macchina o post-umano, come prefigura Nick Bostron, se non addirittura del paziente che gioca a fare Dio.

Questo ritorno alle origini permetterebbe ai professionisti della cura di cambiare la storia passata, come esortava a fare Walter Benjamin, di aprire quella porta che non abbiamo visto, in altre parole di riparare gli errori fatti. Il principale dei quali: dare tutto in mano alla tecnica, dimenticando la natura complessa della conoscenza e il suo rapporto con l’incertezza nell’epoca post-moderna.

Ridare scopo alla scienza medica

Scienza e tecnica sono inarrestabili, ed è inutile cercare in loro moralità e fini. Scienza e tecnica non hanno scopi, richiedono solo di essere ben applicate, ben eseguite: una cosa che si può fare si fa.

Nonostante ciò, l’uomo pone alla scienza e all’abilità tecnica domande alle quali esse non sanno rispondere. Come osservava Umberto Galimberti, spiegare una cosa non vuole dire conoscerla, a meno di non considerare compreso un fenomeno per il solo fatto che la scienza gli ha assegnato un nome. Succede così in campo medico quando associamo dei sintomi a una patologia.

Diversamente, l’uomo, per dare senso alla propria esistenza, si deve dare degli scopi. Ebbene, la tecnologia non va rifiutata, ma solo piegata ai nostri fini, e nel nostro caso a quelli della cura: il paziente non può mai essere considerato un mezzo ma, come insegnava Kant, sempre e soltanto un fine, essendo egli irriducibile.

Nella conciliazione fra visione umanistica e scienza contemporanea sta la possibilità, che ci è data, di rileggere gli scopi della medicina in un sistema dinamico e complesso com’è quello della post-modernità, caratterizzato dal cambiamento e dalla continua necessità di adattamento.

La malattia non può essere solamente considerata uno stato patologico misurabile e classificabile, nosologicamente oggettivo, ma una condizione ben più complessa e irriducibile, cioè non scomponibile in fenomeni o problemi più elementari.

È tale irriducibilità che non permette più di soffermarsi solamente sul disordine biochimico, o sull’anatomia patologica; essa spinge necessariamente a valutare le origini altre, spesso profonde e lontane dalla causa immediata, di cui la malattia non è che il riflesso. Il riflesso della rottura del sano equilibrio armonico fra corpo, mente e anima.

Il ricorso a medicine complementari o non convenzionali non è tanto segno della sfiducia nella medicina e nella classe medica, ma della convinzione oramai generalizzata della multidimensionalità della salute e della cura, che sfugge alla medicina tradizionale.

Scriveva Ernesto Balducci: «La fatica e la nobiltà del vivere stanno nel nostro sforzo di conciliare l’ordine e l’amore, la conservazione e la creatività, la venerazione per ciò che ci è stato trasmesso e la voglia di cominciare da capo».

Quindi, possiamo dire che il nuovo mestiere della cura è aperto alla scienza, poiché integra i tradizionali metodi induttivi-deduttivi con l’abduzione; si muove in una prospettiva qualitativa; sollecita la confutazione; ha incardinata in sé la dialettica per la conoscenza; sa che il cambiamento è l’unica maniera per non mortificare la creatività e il rispetto del passato.

Nuovo approccio diagnostico

Le scoperte della scienza medica portano a eziologie, specie nelle malattie complesse, così multifattoriali da essere scoraggianti ai fini diagnostici, finendo per sottolineare l’insufficienza del tradizionale approccio biometrico.

Dietro questa criticità, o meglio alle sue radici sul piano delle aspettative sociali e motivazionali, c’è una definizione di salute che appare sempre più vecchia e fuorviante. È quella che nel 1948 diede l’OMS, talmente utopistica da alimentare involontariamente aspettative o pretese edonistiche che oggi si fa fatica a contenere.

A ben riflettere, non esiste lo stato di completo e simultaneo benessere fisico, mentale e sociale. Nessun essere umano, secondo tale definizione, può dirsi sano. Dunque siamo tutti e sempre malati? O in procinto di ammalarci, o inevitabilmente predisposti a esserlo? L’avere esclusa la morte dal ciclo vitale ci ha ridotti a un circuito vizioso, in cui la nostra mente finisce intrappolata, in cui la sola parola malattia diventa angosciante, in cui la morte, evento naturale della vita, che così come inizia in modo altrettanto naturale finisce, viene irrazionalmente respinta.

Non siamo più abituati, prima come figli poi come genitori e poi fino alla vecchiaia, a vedere nella cura per la nostra salute un dovere e una necessità insieme, per noi e per chi ci sta vicino e ci è caro. Il medico, l’ospedale sono un sostegno prezioso, certamente utile, a volte risolutivo e a volte no, ma non dobbiamo aspettarci miracolistici interventi in grado di rigenerarci e farci nuovi. Salute e malattia sono due presenze, due poli dai confini incerti e che ci accompagnano sempre. Prenderne atto vorrebbe dire, come saggiamente scriveva Rita Levi Montalcini, dare vita ai giorni e non giorni alla vita.

da “Medicina inedita. Uno sguardo nuovo su salute e malattia”, di Gianpaolo Donzelli e Pietro Spadafora, La Nave di Teseo, 2021, pagine 208, euro 16

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