Gli Europei del 2021 rimarranno nella storia per più di un motivo: l’importanza del torneo appena concluso va ben oltre il campo, il risultato, il percorso delle singole squadre. È la più importante manifestazione calcistica da quando il mondo ha conosciuto la pandemia di Covid-19. Anzi, Euro 2020 ha rappresentato uno spartiacque importante per il calcio e lo sport: è l’evento più importante, per visibilità, durata e mobilitazione di persone a riportare i tifosi negli stadi.
Le limitazioni e le misure di sicurezza sono ancora parte dell’equazione – non in tutti gli 11 stadi coinvolti nella kermesse – e comunque i problemi di natura sanitaria non sono affatto spariti: l’Organizzazione mondiale della sanità ha affermato che il torneo ha contribuito a un aumento del 10 per cento dei nuovi casi in Europa.
Ma è evidente come questi Europei abbiano rappresentato, per moltissime persone, un ritorno alla dimensione più emotiva – mistica – dello sport: «Per me la presenza dei tifosi ha reso Euro 2020 uno dei tornei più drammatici a cui ho assistito in vita mia. Con gli spalti pieni si è amplificato tutto ciò che avviene in campo, in modi che sono stati allo stesso tempo esilaranti e terrificanti», ha scritto Clint Smith in un articolo pubblicato sull’Atlantic.
Gli Europei itineranti, disputati con un anno di ritardo, arrivano dopo una stagione difficile per qualunque appassionato di sport e di calcio: per un anno intero quasi tutte le squadre del mondo hanno dovuto giocare in stadi vuoti, in contesti ambientali singolari.
«È stata un’esperienza strana e spesso disorientante. Guardando la stagione in televisione, gli spettatori potevano sentire il vuoto degli stadi echeggiare attraverso lo schermo. Potevano sentire ogni giocatore chiamare la palla, sentire ogni istruzione dell’allenatore e ogni tonfo ogni volta che un piede entrava in contatto con la superficie sintetica della palla. Alcune emittenti hanno tentato di riempire il vuoto con un rumore artificiale della folla, che ha solo amplificato il vuoto, poiché l’aumento e la caduta dei finti applausi raramente corrispondevano a ciò che stava accadendo sul campo», si legge nell’articolo.
Inevitabilmente si è smarrito il calore del pubblico, si sono persi tutti gli elementi che erano più di una semplice cornice per una partita: a Liverpoool mancavano le note di “You’ll never walk alone” che riempivano le partite ad Anfield, a Madrid il recente coro “Hala Madrid y nada más”, nato nel 2014, non aveva più interpreti, e le straordinarie coreografie della Bundesliga tedesca si sono spente in un vuoto che non avrebbe potuto essere riempito in nessun modo.
L’articolo dell’Atlantic cita un momento particolare di Euro 2020 in cui si è percepito tutto il peso e il valore di una partita con i tifosi sugli spalti. È stato nel momento più catartico degli Europei, durante Danimarca-Finlandia: «Al 43esimo la stella danese Christian Eriksen, uno dei migliori giocatori che il piccolo Paese scandinavo abbia mai prodotto, ha iniziato a inciampare mentre riceveva un passaggio, poi è crollato. I suoi compagni di squadra, rendendosi conto che qualcosa non andava, hanno chiamato l’assistenza medica. Il capitano della Danimarca, Simon Kjaer, è stato tempestivo: è andato di corsa verso Eriksen e lo ha messo in una posizione di sicurezza che gli ha impedito di soffocarsi con la lingua. I giocatori danesi hanno anche creato un cerchio attorno a Eriksen mentre i medici gli hanno praticato la rcp. I giocatori di entrambe le squadre erano visibilmente scossi; molti di loro erano in lacrime».
In quel preciso momento lo stadio era in silenzio, proprio come durante molte altre partite in cui non c’erano tifosi. Solo che il silenzio di uno stadio dove migliaia di persone temono di aver appena visto un uomo perdere la vita ha un valore completamente diverso.
«Anche guardando la televisione a un oceano di distanza, ho sentito il mio cuore cadere. Per alcuni minuti non ci sono stati cori, né canti, solo il sommesso mormorio della paura», scrive Clint Smith.
Quel silenzio, quell’emozione trattenuta, poi si è trasformata, è diventata solidarietà, incoraggiamento, affetto incondizionato. Quando ormai le due squadre erano uscite dal campo, i tifosi danesi cantavano «Christian», e i finlandesi rispondevano a tono: «Eriksen».
E non è finita con Danimarca-Finlandia. I danesi hanno fatto un percorso eccellente, arrivando fino alle semifinali, spinti da una carica emotiva fortissima. Ma non è stato un percorso semplice. Dopo aver chiuso con una sconfitta la partita con i finlandesi, la formazione allenata da Kasper Hjulmand è stata superata dal Belgio alla seconda giornata, nonostante una prestazione brillante che avrebbe meritato almeno un punto.
Alla terza partita del girone la Danimarca si giocava tutto, contro una Russia che aveva già 3 punti e avrebbe potuto accontentarsi del pareggio: il passaggio del turno era ancora possibile, ma solo con un incastro di risultati favorevoli. Al 38esimo minuto Mikkel Damsgaard, il giocatore che aveva sostituito Eriksen nella formazione titolare, ha raccolto un passaggio a circa 25 metri dalla porta con l’interno del piede sinistro, si è ingobbito, ha spinto la palla alla sua destra con l’esterno del piede destro, ha fatto partire un tiro che si è fatto strada fino all’angolo in alto a destra della porta, trasformando lo stadio in un’onda amorfa di corpi che si agitavano istericamente nell’aria.
«Nel calcio non c’è niente di più bello che guardare l’immobilità della folla in quei momenti dopo che la palla è stata colpita, il modo in cui gli occhi si spalancano e le bocche si aprono mentre si fa strada verso la porta, e poi vedere i corpi delle persone esplodere in estasi mentre palla colpisce la parte posteriore della rete», scrive l’Atlantic.
Dopo il vantaggio è arrivato il raddoppio danese, poi il 2-1 della Russia. A quel punto la Danimarca aveva bisogno di un altro gol per assicurarsi il passaggio al turno successivo. A 11 minuti dalla fine, dopo una serie di tocchi imprecisi nell’area di rigore, la palla è rotolata sulla trequarti di campo, dove il difensore danese Andreas Christensen l’ha sparata di prima intenzione verso la porta. Un siluro terra-aria che ha fatto tremare la porta russa per un bel po’. E soprattutto ha inchiodato il risultato sul 3-1 mandando in delirio i tifosi del Parken Stadium di Copenaghen. Poco più tardi sarebbe arrivato il sigillo finale, segnato dall’atalantino Joakim Mæhle.
«Le persone si arrampicavano l’una sull’altra mentre urla primordiali volavano verso il cielo. Sconosciuti piangevano e si abbracciavano. Sono stati lanciati in aria bicchieri di birra. È stato magnifico assistere, anche da lontano», scrive l’Atlantic.
A tutti i tifosi è mancato il calcio, il gioco dal vivo, lo stadio. E al calcio sono mancati i tifosi. «Il calcio», conclude l’articolo, «non è niente senza i tifosi che lo sostengono. Non è niente senza coloro per i quali questi stadi sono spazi sacri, che cantano inni sia per la propria squadra di club sia per la propria nazionale. Vedere i fan danesi passare dal terrore al giubilo nel corso di questo torneo è stato un promemoria del perché questo gioco è così importante per così tanti. È un promemoria che ci ricorda molto di ciò che questa pandemia ci ha tolto e di ciò che, se non stiamo attenti, potrebbe prenderci di nuovo».