Come spesso accade quando c’è di mezzo una caccia al tesoro, anche quella che stiamo per raccontare riserverà momenti di tensione e qualche sorpresa. Tra queste la prima, occorre svelarlo subito, è la natura del tesoro di cui parleremo: «Poche pietre che non hanno alcun valore» assicura Thomas Bruce, Lord Elgin, ambasciatore britannico presso il sultano Selim III, dopo che il 17 settembre 1802 il suo brigantino Mentor è naufragato nel mar Egeo, appena fuori dal porto di San Nicolò nell’isola di Cerigo (oggi Kythira). Niente affatto, non è vero. Le diciassette casse sommerse nella pancia della nave contengono in realtà parecchie opere d’arte sottratte al Partenone e ad altri monumenti dell’Acropoli di Atene. Pietre sì, dunque, ma di grande valore.
Lord Elgin mente di proposito per nascondere che si tratta di capolavori artistici, e lo fa per molte ragioni: non vuole ingolosire ladri o pirati, non intende alimentare l’ingordigia dei collezionisti rivali o, peggio ancora, suscitare la rapacità dei francesi. Vuole che il tesoro arrivi a Londra senza che nessuno metta in discussione la proprietà dei marmi. Il naufragio di Cerigo, una disastrosa tappa della lunga vicenda di spoliazione del Partenone, si svolge sullo sfondo di uno dei periodi più turbinosi della storia europea e mediorientale, negli anni a cavallo tra Sette e Ottocento, un momento di transizione politica e culturale dell’Europa stessa, dove si combatte per l’egemonia sul continente mentre si vanno affermando nuovi assetti politici, nuove correnti di pensiero e una nuova sensibilità verso le opere d’arte.
La missione diplomatica di Lord Elgin nel Levante, che lo condurrà a compiere il più gigantesco trasporto di opere d’arte fino allora mai visto, scaturisce dalla necessità britannica di catturare la benevolenza dei turchi, nel 1798 attaccati in Egitto dal generale Napoleone Bonaparte. Dalle guerre napoleoniche, nel mezzo delle quali le “poche pietre” spariscono nell’acqua salata, uscirà un diverso assetto dei poteri nell’area mediterranea, proprio mentre quell’area è il terreno di un’altra gara, quella al più ricco bottino di opere d’arte antica, ovunque si trovino, da offrire su un mercato in crescita, che vede come acquirenti i collezionisti privati e le teste coronate.
La scena di questa e delle altre cacce al tesoro che si svolgono a cavallo tra i due secoli è davvero ampia: va da Londra a Costantinopoli, passando per Palermo; da Atene ad Alessandria d’Egitto, transitando per le isole dell’Egeo e Malta, per volgere poi verso la Francia e infine tornare a Londra mentre si alternano battaglie campali e navali, viaggi per mare, peregrinazioni tra antiche città in rovina e un’incessante sfida a chi vanta il più ricco bottino di bassorilievi, colonne, monete, vasellame e lapidi.
Per le “poche pietre”, ovvero per i capolavori d’arte antica, si mobilitano, oltre a Napoleone e Lord Elgin, illustri personalità come il sultano Selim III, l’ammiraglio Horatio Nelson, il potente Alì Pascià, lo scultore Antonio Canova, il poeta George Gordon Byron e altri. La caccia sfiora una miriade di personaggi, alcuni dei quali famosi, come Lady Emma Ha milton o Charles-Maurice de Talleyrand, e altri meno noti, come William Richard Hamilton, Emanuele Caluci o il pescatore di spugne Michalis Skla pas e i suoi colleghi, ma altrettanto importanti ai fini di questa storia. Un posto di riguardo spetta a Mary Nisbet, Lady Elgin, che tanto brillante mente si adopera per il bottino greco del marito ambasciatore.
Perché mai i potenti della terra partecipano alla caccia al tesoro artistico? Perché, come insegna Napoleone che ne è il più avido predato re, il possesso di opere d’arte in sterminata quantità da sistemare in un museo, possibilmente grandioso, conferisce prestigio alla nazione. Chi si impossessa delle testimonianze della civiltà ellenica, o di altre civiltà del passato, ne diventa l’erede agli occhi del mondo. La supremazia artistica, che Napoleone coniuga in chiave imperiale e Lord Elgin in chia ve culturale, sarà quindi d’aiuto per il conseguimento dell’obiettivo finale: il dominio del mondo.
Da decenni in Europa si è scatenata una febbre antiquaria, una brama di possedere le opere d’arte, un frammento o almeno un coccio, per mania di collezionismo, per frenesia di accumulazione, ma anche per amore delle antiche civiltà e su tutte quella greca che, a partire dalla seconda metà del Settecento, incuriosisce e attira più di quella romana, già ampiamente esplorata. Sir William Douglas Hamilton, ambasciatore britannico nel Regno di Napoli dal 1764, colleziona vasi per pura passione; Napoleone vuole i marmi greci per costruirsi un’identità imperiale, così come si è impossessato di opere d’arte in tutta Europa per la gloria della Francia; Lord Elgin invece dà la caccia ai marmi per conferire alla Gran Bretagna un primato artistico (ma anche per uno scopo più strettamente personale: liberarsi dei debiti che ha accumulato); Charles Cockerell, architetto e archeologo britannico, lo fa semplicemente per arricchirsi.
A mano a mano che la passione antiquaria dilaga, l’osservazione dei reperti diventa più sistematica e accurata; si fa strada l’abitudine a uno studio serio e scientifico che incrocia la storia, la storia dell’arte, la geografia, i testi classici di filosofia, teatro e viaggio. Dalla caccia al tesoro sta nascendo qualcosa che non è più un gioco né una gara all’accumulazione, ma una nuova scienza, l’archeologia: lo studio dei reperti in loco per ricostruirne le vicende, per conoscere a fondo le passate civiltà e trarne quella lezione di razionalità e bellezza prediletta dai filosofi dell’età dei Lumi. Il naufragio del Mentor cade nel bel mezzo di questo passo nell’evoluzione della passione per le antichità.
Creatura immortale, simile agli dèi dell’Olimpo, il Partenone è al cen tro dell’immaginario europeo, simbolo dell’età d’oro della Grecia antica, capolavoro di armonia e sublime prodotto dell’ingegnosità umana. Lord Elgin lo sa bene e, visto che lo identifica come la preda più ambita, non risparmia gli sforzi per farlo suo, almeno a pezzi, poiché è im possibile traslocarlo a Londra tutto intero, così com’è. Il Partenone ha incantato e incanta tuttora dopo più di ventiquattro secoli di esistenza, dopo più di due secoli dalla spoliazione di Lord Elgin, anche se non detiene il primato di visitatori di monumenti antichi: con 7,2 milioni di per sone all’anno, si classifica solo al quarto posto, dietro alla Città proibita di Pechino (17 milioni), alla Reggia di Versailles (8,1) e al Colosseo (7,6).
Una schiera di visitatori di ogni rango ha lasciato nei secoli testimonianza di stupefatta ammirazione. Romanzi, saggi, raccolte di poesia, epistolari e testi di viaggio esibiscono un coro di elogi. Se il viaggiatore turco Evliya Çelebi decretava a metà del Seicento: «Non ho mai visto una moschea così bella», tre secoli dopo Le Corbusier, architetto pioniere del modernismo, affermava: «Non c’è niente di simile in nessun luogo e in nessun tempo». Artisti, filosofi, letterati, turisti di ogni provenienza e cultura sono rimasti affascinati dal tempio dominante sull’Acropoli, non più visibile nella sua integrità e purtroppo ferito senza rimedio nel corso di tante guerre e parecchie razzie (con il robusto contributo distruttivo di Lord Elgin). Non importa. Da lassù il Partenone, nelle sue perfette proporzioni e nell’armonia delle sue forme, sembra affermare con forza il suo primato di creatività e di abilità costruttiva.
Questa è una delle storie della sua devastazione, dove si intrecciano vizi e virtù, fortuna e sfortuna, ma anche ragione e torto. Nelle pagine che seguono la questione della proprietà delle opere d’arte trafugate è soltanto sfiorata, non si discute della restituzione dei marmi alla Grecia, non si giudica l’operazione di Lord Elgin né tantomeno si propone una soluzione alla controversia. La vicenda è semplicemente raccontata, spesso con i colori vividi delle parole di chi l’ha vissuta.
Il naufragio del Mentor porta la data del 1802, molto tempo prima che il concetto di proprietà nazionale delle opere d’arte prenda forma, molto tempo prima che le opere d’arte del passato vengano classificate come patrimonio dell’umanità. È perciò un argomento che appartiene più ai nostri giorni che non a quelli di Lord Elgin. Al tempo del naufragio di San Nicolò la questione – tuttora irrisolta – è quasi del tutto ignota ai protagonisti della caccia al tesoro, anche se qualche voce isolata solleva la questione della proprietà già dopo l’approdo a Londra dei marmi.
Tra i critici, Lord Byron avanza rimproveri feroci alla febbre antiquaria e definisce i prelievi come un saccheggio, una barbarie. Tuttavia nei primi anni dell’Ottocento la Grecia è una terra derelitta, divisa tra l’impero ottomano e vari potentati locali, agli albori della coscienza nazionale e impossibilitata a difendere i propri tesori. Lord Elgin è viceversa con vinto di salvare quei capolavori dall’incuria e dalla rovina.
In nessun caso la storia del naufragio del Mentor autorizza a giudi care le ragioni e i torti. Può invogliare invece a mettersi nei panni di chi l’ha vissuta, a valutare una stagione della storia europea densa di guerre sanguinose e di battaglie culturali, e a provare nostalgia per il mondo ellenico, così remoto nel tempo eppure così vivo e presente nelle nostre menti. Può inoltre suscitare ammirazione per il coraggio e la tenacia di chi si è battuto per il recupero dalle acque salate di quelle diciassette casse di legno che contenevano non «poche pietre che non hanno alcun valore», ma un vero e proprio tesoro artistico.
Da “Il naufragio del Mentor – I marmi del Partenone e la guerra per il dominio dell’Europa” di Marta Boneschi, (Luiss University Press), 292 pagine, 19 euro