È un periodo strano e complicato questo. Abbiamo una pandemia in corso, siamo tutti preoccupati, in smart working da casa tra pentole e compiti dei figli, oppure a casa da soli, o peggio ancora con il nostro lavoro a rischio. Il livello di stress sembra in continuo aumento tanto da far prevedere all’Organizzazione Mondiale della Sanità che nel 2030 la depressione sarà la malattia più diffusa (e questa previsione risale a prima della pandemia). Siamo continuamente distratti, possiamo dire senza esagerare che siamo «dipendenti dalle nostre distrazioni», sempre alla ricerca di un nuovo diversivo e incapaci semplicemente di «essere».
Durante le settimane del lockdown nella primavera 2020, così come negli ultimi mesi dello stesso anno, molte persone si sono trovate con un po’ più di tempo a disposizione e con tutte le abitudini scombinate. Ma lo stato di ansia e tensione che si è cominciato ad avvertire sarà proprio tutto dovuto alle difficoltà degli ultimi tempi? Oppure ci potrebbe essere dietro qualcos’altro? Blaise Pascal, ormai quattro secoli fa, affermava: «Tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo». Mi sembra che quest’affermazione riesca a spiegare molto bene quale potrebbe essere la ragione di fondo dietro alla costante crescita di problemi legati alla nostra salute mentale. Uno studio molto più recente, pubblicato da Science nel 2014, ci conferma l’intuizione.
Un team di ricercatori ha dapprima reclutato studenti volontari ai quali sono state fatte provare alcune stimolazioni, tra cui una piccola scossa elettrica. Si è poi chiesto loro se avrebbero pagato cinque dollari per non essere più sottoposti a tale «elettroshock»: la maggior parte, come ci si potrebbe aspettare, ha risposto di sì. Quando però gli stessi individui sono stati «chiusi» a pensare per quindici minuti avendo a disposizione la possibilità di interrompere la reclusione premendo un tasto per autoinfliggersi la scossa, il 67 per cento dei maschi e il 25 per cento delle femmine lo hanno premuto, e anche più di una volta.
Niente è peggio che stare in silenzio da soli con i propri pensieri, a quanto pare. Anche un piccolo dolore disturba meno del silenzio interiore. Vi propongo qualche altro modo ancora per guardare la stessa cosa. Un gabbiano attraversa il cielo in una giornata d’estate. La brezza marina ci accarezza i capelli. Alcuni bambini giocano spensierati e sorridenti. Ma noi non ce ne accorgiamo. Stiamo pensando alla cena che abbiamo deciso di organizzare la sera stessa, al fatto di dover andare al supermarket del paese e di dover trovare posto per l’auto (noterete quanto il solo pensare a questa ricerca metta un po’ d’ansia). Giappone, XIV secolo.
Tutta l’attenzione è sui guerrieri, eroi del loro tempo, che, oltre a trascorrere le giornate ad allenarsi nell’arte del combattimento, affilano le spade e fanno una cosa strana: stanno seduti per ore a non fare nulla, tutti i giorni. Sono i samurai e stanno meditando. Il sedersi a non fare nulla serve loro ad allenare la capacità di non perdere l’attenzione durante un combattimento e, al tempo stesso, rimanere calmi. La tensione in queste situazioni non porterebbe nulla di buono. Il samurai, perdendo l’attenzione su ciò che sta facendo, potrebbe infatti distrarsi e non essere presente e attento quando subisce un attacco mortale. Noi, in modo (forse) meno drammatico, quando perdiamo l’attenzione, non ci accorgiamo neppure di vivere.
Quando l’attenzione di un samurai viene meno, perde la vita, e qualcosa di simile succede anche a noi. (Culadasa)
Piano alto di un grattacielo di Corporate New York. Intorno a un tavolo siedono gli executive di una società, pronti a prendere decisioni che avranno un grande impatto sul futuro di migliaia di persone. Ma c’è silenzio, non si percepisce tensione, questi samurai moderni stanno copiando i loro predecessori, stanno seduti, in silenzio, a occhi chiusi, per qualche minuto, a non fare nulla. Questo esercizio serve loro per raccogliere l’attenzione sulle decisioni importanti che andranno a prendere di lì a poco, così da essere lucidi, attenti e il meno distratti possibile nel difficile compito. Per questo parliamo di un potere vero e proprio. E abbiamo due alternative: essere consapevoli oppure no. Il potere di essere consapevoli, presenti, in contatto con la realtà, sarebbe già di per sé qualcosa di interessante da prendere in considerazione. Se aggiungiamo che, essendo costantemente esposti a moltissimi stimoli facilmente accessibili (siano essi libri, video o social media), rimanere focalizzati è diventato ancora più difficile e al tempo stesso non è mai stato così importante farlo per districarsi all’interno di tutta la confusione che ci circonda, se appunto aggiungiamo tutto questo ecco che il potere di essere consapevoli diventa un superpotere!
Più il nostro mondo diventa veloce, più dobbiamo essere in grado di calmare la nostra mente e rimanere centrati. La capacità di restare focalizzati e attenti sulle cose importanti ci può dare chiarezza mentale, efficienza e, insieme a ciò, ridurre il nostro livello di stress percepito. Dal momento che in pochi hanno realmente tale capacità, tale superpotere, averlo solo anche in minima parte ci può dare quanto meno un vantaggio competitivo. Questo superpotere si può inoltre allenare. La difficoltà di osservare e rimanere attenti sulla realtà, anche se ulteriormente aggravata dall’accelerazione degli ultimi anni, è un problema antico. Prima ancora di Pascal, ce lo dicevano i Romani: «hic et nunc», un richiamo alla necessità di essere «qui e ora», all’importanza dunque del momento «presente». Bertrand Russell nel 1935 pubblica l’Elogio dell’ozio, un invito ad approfittare del maggior tempo di cui l’uomo poteva iniziare a godere grazie al progresso tecnologico.
L’ozio, concetto ben lontano dall’idea di non aver voglia di fare, è uno spazio che Russell invita a concedersi e senza il quale non possiamo creare, inventare, produrre, decidere, agire (ricordiamo che il filosofo, logico, matematico, attivista e saggista britannico nella sua vita ha scritto decine di libri e articoli, insegnato matematica e filosofia a Cambridge e, così, giusto perché oziava tanto, ha vinto il premio Nobel per la letteratura nel 1950). Questo spazio ha anche un potere «curativo», che ci fa bene. Lo spazio che esiste tra ciò che ci accade e la nostra risposta ci rimane spesso invisibile e diamo per scontato che di fronte a una certa situazione, a qualcosa che ci accade, la risposta sia predefinita. Quando invece ritroviamo quello spazio e lo coltiviamo, lì dentro c’è la nostra capacità di ponderare la risposta. La ricerca di questo spazio e la possibilità in esso insita di guidare le nostre azioni possono trasformarsi in una abitudine e diventare con il tempo il nostro modo normale di operare.
Tra lo stimolo e la risposta c’è uno spazio. In quello spazio risiede il potere di scegliere la nostra risposta. Nella nostra risposta c’è la nostra crescita e libertà. (Viktor Frankl)
Venendo ai giorni nostri, ci sono innumerevoli personaggi di successo che elogiano la meditazione. Ray Dalio, definito lo «Steve Jobs degli investimenti», attribuisce il suo successo alla meditazione, e Adam Robinson, saggista, consulente per alcuni dei maggiori hedge fund nonché life master della federazione scacchistica statunitense, dice che l’aver imparato a meditare è il suo più importante investimento. Ci sono anche donne e uomini dello spettacolo (Oprah Winfrey, Arianna Huffington) e sportivi del calibro di Michael Jordan che parlano apertamente di come questa abitudine abbia contribuito in modo sostanziale al loro successo. L’artista Will.I.Am è riconoscente al suo insegnante delle scuole medie perché, insegnandogli la meditazione, lo ha tenuto fuori dalla droga. Insomma, sembra che la meditazione sia importante e pare proprio che un elemento che accomuna le persone di successo sia appunto la presenza di una pratica di meditazione nella loro routine quotidiana.
Da “Mindfulness – Più focus, meno stress”, di Riccardo Caserini, Egea, 2021, 192 pagine, 22,80 euro