1932-2021L’impronta leggera e l’eredità pesante di Donald Rumsfeld

È morto a 88 anni il capo del Pentagono in due momenti cruciali della storia americana, nel pieno della Guerra Fredda e dopo l’11 settembre. Un personaggio controverso e discusso, ma spesso anche malinteso. La sua invasione light ha destituito agevolmente Saddam, ma ha impedito il Nation building. Luci e ombre sul portavoce del conflitto iracheno e dei misfatti di Abu Ghraib

AP/LaPresse

Donald Rumsfeld (1932-2021) è stato un personaggio controverso e spesso malinteso, un uomo sicuro di sé e incapace di dubitare delle sue scelte, un ideologo della supremazia americana, uno degli strateghi della Guerra fredda contro il comunismo e un modernizzatore del complesso militare-industriale. Il presidente Richard Nixon lo chiamava «lo spietato piccolo bastardo», ma più che altro era un cattivo alla Jessica Rabbit un po’ perché lo disegnavano così e un po’ perché gli piaceva farlo credere con le sue battute taglienti e i suoi appunti “fiocchi di neve” con cui dispensava le sue riflessioni ai sottoposti e, a suo modo di vedere, all’eternità. 

Rumsfeld è stato l’unico segretario alla Difesa  nella storia degli Stati Uniti ad aver servito il Pentagono per due mandati non consecutivi, il più giovane di sempre, a 43 anni nell’Amministrazione Ford, e il più anziano di sempre, a 74 anni con George W. Bush. 

Al contrario di quanto si crede, non è stato l’architetto della campagna politico-militare irachena del 2003 né l’ideologo dell’esportazione della democrazia in Medio Oriente. Ma è stato la voce brillante e il volto arrogante della guerra. Rumsfeld non era un neoconservatore, l’idealismo non era nelle sue corde, era un realista americano e l’ideatore dell’invasione light in Medio Oriente, con poche truppe super equipaggiate capaci di intervenire con operazioni speciali e pronte a essere ritirate presto, prestissimo, una volta conclusa la missione. 

La missione, per lui, era la più semplice: destituire il dittatore Saddam Hussein in modo da affidare gradualmente la sicurezza del paese agli iracheni, ai legittimi proprietari del paese sequestrato per trentacinque anni da Saddam. 

Rumsfeld, per questo, è stato il freno alle illusioni democratizzatrici di Bush e dei neocon, credeva al regime change militare ma non al nation building, al regicidio ma non alla costruzione civile del paese liberato dal direttore.

Aveva anche provato a trattare con Saddam l’esilio, ma il rais ha rifiutato, convinto che gli americani non sarebbero mai intervenuti.

Rumsfeld, chiamato Rummy dall’editorialista del New York Times Maureen Dowd, è stato il leader del fronte toccata-e-fuga in Iraq con lo scopo limitato all’addestramento della polizia locale e all’ampliamento di un esercito desaddamizzato.

La sua strategia è stata un clamoroso insuccesso, l’Iraq è sfuggito di mano anche a causa della sua impronta leggera e si è faticosamente rimesso in carreggiata soltanto dopo la sua sostituzione al Pentagono con Bob Gates, il segretario alla Difesa scelto da Bush e tenuto anche da Obama nel 2009, e dopo il famoso “surge” di uomini e mezzi orchestrato dal generale David Petraeus, chiesto a gran voce da John McCain e dagli ideologi della missione democratizzatrice, ma sempre respinto da Rumsfeld.

A suo carico anche l’abuso nell’immediatezza post 11 settembre di alcune famigerate “tecniche avanzate di interrogatorio” mutuate dai manuali Cia e in alcuni casi confinanti con la tortura, ma anche la contestazione delle analisi prudenti della Cia sulle armi di Saddam e la débâcle di immagine inferta all’America. 

Rumsfeld rispondeva alle critiche ignorandole o con astrusi e geniali ragionamenti come il famoso «ci sono cose conosciute che conosciamo (known knowns); sono le cose che sappiamo di sapere. Ci sono cose conosciute che non conosciamo (known unknowns); ovvero le cose che sappiamo di non sapere. Ma ci sono anche cose sconosciute che non conosciamo (unknown unknowns); sono le cose che non sappiamo di non sapere», cui poi aggiunse anche «le  cose che potresti sapere ma non sai di sapere (known unknowns)». 

Nel giorno della sua morte è comunemente ricordato come il peggior capo del Pentagono di tutti i tempi, più di Robert McNamara, suo predecessore ai tempi del Vietnam, il quale anni dopo almeno si era scusato di aver tenuto nascoste le informazioni negative sull’andamento della guerra in un formidabile documentario, The Fog of War, con cui Errol Morris vinse l’Oscar. 

Morris aveva tentato la stessa operazione con Rumsfeld, in “Known Unknown”, ma senza ottenere nessun pentimento, se non quello di non essersi dimesso subito dopo lo scandalo delle torture nel carcere iracheno di Abu Ghraib, secondo lui opera solitaria e criminale dei singoli soldati responsabili e non di una linea politica avallata da Washington. 

A suo tempo Robert Kaplan, esperto di questioni geopolitiche, ha provato a dare una lettura meno negativa dell’operato di Rumsfeld, pur riconoscendo i molti errori, con un articolo sull’Atlantic intitolato “Le cose giuste di Rumsfeld”. 

Coinvolgendo una trentina di esperti di sicurezza nazionale, repubblicani e democratici, Kaplan è arrivato alla conclusione che Rumsfeld era riuscito a rivoluzionare l’esercito e la burocrazia del Pentagono in modo positivo, adattandoli ai tempi e alle nuove sfide e consentendo al successivo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, di disporre di un apparato bellico moderno e riformato. 

Ancora prima dell’11 settembre, Rumsfeld era ossessionato dall’incertezza che l’America potesse essere colta da una catastrofica sorpresa. 

Questa ossessione l’ha portato a difendere l’idea di uno scudo spaziale e a mettere in discussione, così come aveva fatto la segretaria di Stato di Bill Clinton, Madeleine Albright, la dottrina di Colin Powell sull’uso dell’esercito soltanto in casi rari e estremi. «Nella visione di Rumsfeld, le truppe americane in una parte del mondo avrebbero dovuto essere pronte per essere inviate all’istante da un’altra parte per combattere o portare aiuti. Da qui la sua fissazione con il cambiamento di atteggiamento globale dell’esercito, per trasformarlo in una forza combattente. Le fondamenta intellettuali di queste transizioni sono cominciate durante gli anni di Bill Clinton, ma Rumsfeld è quello che le ha realizzate». 

Gli attacchi dell’11 settembre hanno consolidato questa strategia che si è concretizzata nella discussa “dottrina dell’1 per cento” elaborata dall’allora vicepresidente Dick Cheney, antico collaboratore di Rumsfeld. Dopo essere stata colta di sorpresa dall’attacco alle Torri gemelle, nonostante le decine di piste che l’Fbi stava seguendo, l’America avrebbe dovuto cambiare approccio alla sicurezza nazionale e ogni volta che ci sarebbe stato anche solo l’uno per cento di possibilità che potesse capitare qualcosa di inimmaginabile avrebbe dovuto agire come se ce ne fosse stata la certezza.

Gli esperti consultati da Kaplan hanno sostenuto che Rumsfeld avesse fatto bene a ridurre i contingenti americani dall’Europa per ampliare la presenza non permanente in Africa, medio oriente, America latina. L’idea di Rumsfeld era quella di essere presenti nelle regioni più calde del pianeta con un peso leggero, senza costruire le tante “piccole Americhe” create in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Questa presenza leggera, «senza mogli, senza bambini, senza ambulatori, senza cani, senza chiese» ha facilitato gli accordi bilaterali con gli stati ospitanti, al punto che dalla fine della Guerra fredda alla fine della gestione Rumsfeld i trattati bilaterali sono aumentati da 45 a 90, mentre l’aviazione militare ha firmato contratti di sosta e di rifornimento con venti paesi africani. 

Un approccio simile è stato seguito in estremo oriente, dove Rumsfeld era riuscito a convincere i sudcoreani a non ridurre il loro esercito e di prendersi carico della propria difesa dalla Corea del nord. In questo modo, il Pentagono è riuscito a diminuire la presenza umana americana nell’area, a rafforzare il contingente aereo e navale, ad allontanarla dal fronte con la Corea del nord, pur riservandosi il potere di supervisione delle operazioni militari in caso di guerra. 

Rumsfeld ha anche rivitalizzato le relazioni militari con il Giappone, convincendo Tokyo a spendere miliardi di dollari nella propria difesa e a ospitare la prima portaerei con bombardieri nucleari. 

Un altro successo di Rumsfeld sottostimato dai suoi detrattori è stato quello centrale nella formazione della nuova strategia americana in Asia, ovvero il piano di dispiegamento delle portaerei nel Pacifico, piuttosto che intorno alle coste americane. Rumsfeld ha concluso accordi con le Filippine, con Singapore, con l’India, fornendo agli Stati Uniti una nuova costellazione di basi mondiali più flessibili e austere, controllate da una struttura centrale e non appesantite da problemi politici con i governi alleati. 

Secondo Rumsfeld, questa quieta rivoluzione strategica avrebbe consentito agli Stati Uniti di reagire in modo spedito alle emergenze di ogni tipo, di continuare in modo più efficace la guerra al terrorismo e di controllare l’espansione militare senza necessariamente provocare il governo di Pechino.

Secondo Kaplan, «Rumsfeld ha spinto parecchio per uno dei più importanti cambiamenti nell’organizzazione di un esercito dai tempi di Napoleone, spostando l’unità di comando dalla divisione alla brigata da combattimento», cioè affidando a squadre di soldati meno numerose e meno burocratiche, più facilmente adattabili alle diverse situazioni di un mondo anarchico e non convenzionale. Ma la rivoluzione di Rumsfeld, secondo Kaplan, non è stata soltanto burocratica, ma ha inciso sui nuovi modi di combattimento, in particolare con il raddoppio del budget alle forze speciali.

Ma non sarà ricordato per questo.

 

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