La trattativa Stato-AntimafiaLa triste e ripetitiva rivolta dei magistrati star sulla prescrizione

Da Gratteri a De Raho, i nomi illustri della magistratura criticano aspramente il ddl Cartabia, basando le proprie opinioni sull’idea che il diritto dello Stato all’azione penale sia prevalente sul diritto dei cittadini a un giusto processo. Oltre a ignorare i diritti della Costituzione, si sta verificando l’ennesima conferma del pessimo stato della giustizia e della politica italiana

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Tra le poche certezze che la politica italiana riserva al suo fedele pubblico pagante, la principale è quella della indignata rivolta del Consiglio superiore della magistratura e dell’Associazione nazionale magistrati pre e post-palamariani, delle toghe antimafia, del partito delle procure e delle vestali e prefiche del sanfedismo giudiziario contro qualunque norma processuale o sostanziale, che riconosca negli indagati e negli imputati anche dei soggetti di diritto e non solo dei meri oggetti della pretesa punitiva dello Stato.

Il cosiddetto ddl Cartabia, che se non civilizza il processo penale tenta perlomeno di arginarne la barbarie, con ambizioni peraltro abbastanza limitate, dopo essere finito nel mirino di Giuseppe Conte e dell’ala militare del Movimento 5 stelle – quella critica contro il trattativismo di Grillo – ed essere stata salutata dagli orfani del contismo come una nuova legge salvaladri, è ora discussa in quella sorta di terza camera della Repubblica rappresentata dai sinedri formali e informali del potere giudiziario e delle sue rappresentanze politico-giornalistiche.

E dalle discussioni esce opportunamente sfigurata come un decreto di morte sui processi, un favore alla criminalità e una minaccia alla sicurezza dello Stato e alla tenuta della nostra democrazia.

Come è normale che sia, le reazioni più indignate e ascoltate giungono dai nomi più illustri della lotta alla mafia, da Nicola Gratteri a Federico De Raho, e si fondano esplicitamente sull’idea che il diritto dello Stato all’azione penale sia prevalente sul diritto dei cittadini a un giusto processo, la cui ragionevole durata, che costituzionalmente la legge è tenuta ad assicurare, può considerarsi tale solo nella misura in cui riflette la ragione di Stato della lotta alla criminalità e al malaffare.

Insomma, se per condannare definitivamente un imputato servono vent’anni, la ragionevole durata del processo è di vent’anni. Se ne servissero quaranta, sarebbe di quaranta. Anche perché, in questa logica, la colpevolezza è presunta e incorporata nell’imputazione, che di fatto moralmente prescrive l’innocenza dell’imputato, che solo l’astratta lettera della Costituzione riconosce perdurare fino alla condanna definitiva.

Questo osceno sfondamento dell’articolo 111 della Carta è possibile perché lo Stato non è dal potere togato inteso come un ordinamento giuridico, che tutela la libertà dei cittadini, ma come una «sostanza etica consapevole di sé», secondo la definizione hegeliana, cioè come la fonte della libertà dei cittadini, che dunque non può rappresentare un limite alla sua azione, essendo al contrario un prodotto della sua azione, che non esiste né in termini morali, né giuridici al di fuori di essa. In questo Stato non esistono diritti inviolabili, perché in senso stretto non esistono diritti individuali, se non determinati dalla norma etica dello Stato.

I magistrati antimafia, dunque, si sentono lo Stato non in quanto funzionari pubblici, ma in quanto incarnazioni della sua eticità. In uno stato assoluto anche la giustizia è assoluta e qualunque relativizzazione del suo potere appare insopportabilmente eversiva.

Che ne siano consapevoli o meno, questi magistrati non si sentono solo titolari di una fondamentale funzione civile, per cui rischiano la vita, ma anche investite di uno speciale ufficio spirituale, per cui possono permettersi di rovinarla agli altri, senza troppo angustiarsi delle vittime innocenti che lascia sul campo il perseguimento della loro missione.

Questo conferma che l’idea inquisitoriale della giustizia, non come amministrazione del diritto, ma come affermazione del potere sovrano su chiunque, in qualunque modo, lo minacci, è consustanziale a un’idea totalitaria dello Stato. E che l’inquisizione e il totalitarismo siano democratici, cioè assistiti da un vasto o plebiscitario consenso popolare cambia solo la forma, ma non la sostanza del loro potere assoluto.

Insomma, la rivolta indignata sulla prescrizione è l’ennesimo tristissimo déjà vu assolutistico-inquisitoriale della storia patria e l’ennesima conferma del pessimo stato della giustizia e della politica italiana. E visti i precedenti, per come è iniziata la trattativa Stato-Antimafia sulla prescrizione si può già immaginare come andrà a finire: male.

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