I risultati dei test Invalsi per l’anno scolastico del 2020/21 sono in linea con gli indicatori dell’economia o quelli demografici dell’ultimo anno e mezzo: ovvero disastrosi.
L’ennesima dimostrazione che non c’è aspetto della vita e della società che sia stato risparmiato dalle conseguenze della pandemia è arrivata dai dati complessivi sulla Dad.
Che non potesse essere un toccasana per la preparazione degli studenti era noto, ma pensare che sia stata la sola causa del loro calo di rendimento assomiglia tanto a praticare uno sport molto in voga in Italia, la ricerca del facile capro espiatorio.
La stessa entità del peggioramento dei risultati, più pronunciato alle medie e alle superiori che alle elementari, al Sud e tra gli adolescenti provenienti da famiglie più povere, indica che vi sono dietro ragioni più profonde e antiche.
E del resto la Dad non è un robot che ha sostituito il corpo insegnanti, è uno strumento che da questo è stato usato, e la possibilità di renderlo proficuo non dipende solo dallo strumento stesso, o dalle condizioni di partenza dell’alunno cui è rivolto e della famiglia in cui è inserito, ma anche dalle capacità dell’insegnante stesso.
E forse non aiuta il grado di dimestichezza con la tecnologia che hanno i docenti italiani, che sono tra i più anziani d’Europa, come evidenzia il report di Eurydice, la rete europea di informazione sull’istruzione, fondata dalla Commissione Europea.
Ben il 50,3% degli insegnanti delle scuole medie, su cui è stata concentrata la sua ricerca, ha più di 50 anni. Solo il 6,4% meno di 35. Nel Regno Unito i giovani per esempio sono il 40,7%, ma in generale l’età media è più bassa anche in Paesi con un’aspettativa di vita molto alta come la nostra, come Germania o Spagna.
Fonte: Eurydice, 2018
Se l’età avanzata è già un fattore critico, non giova alla motivazione e al grado di impegno dei docenti la precarietà che caratterizza la carriera lavorativa di un quarto di loro. Solo in Portogallo, in Vallonia, in Romania e in Spagna ci sono più insegnanti delle medie con un contratto a termine. In Francia sono il 7,4% circa, nel Regno Unito a dispetto dell’età media molto più bassa, solo il 5,6%.
Fonte: Eurydice, 2018
L’età, appunto. I pochi giovani che sono riusciti a entrare nel mondo della scuola, gli unici che forse potrebbero alzare il livello di competenze tecnologiche (e non solo) della categoria, sono però anche i più sfavoriti dal punto di vista contrattuale. Ben il 78% di loro è precario, contro il 31,9% dei 35-49enni e il 9% degli over 50. In questo caso ci sono solo i giovani insegnanti portoghesi a essere in una situazione peggiore.
Fonte: Eurydice, 2018
Dunque la situazione appare questa: mediamente i professori sono anziani, se ne capita uno più giovane, magari più esperto nell’utilizzare strumenti digitali che consentono una didattica a distanza, nella maggior parte dei casi è precario, e difficilmente potrà stringere un rapporto duraturo, di più di un anno scolastico, con una classe.
L’età media e la precarietà sono già grossi ostacoli e difetti strutturali per il nostro sistema educativo, ma potrebbero essere attenuati dalla presenza di un’adeguata formazione. Peccato che questa sia nel nostro Paese inferiore a quella che viene svolta nel resto d’Europa.
In particolare, ancora una volta, per gli under 35. Appena metà di loro, sempre nel caso dei docenti di scuola media, ha beneficiato di una attività di mentoring, contro l’86,4% nel Regno Unito, o il 62,4% in Francia, e addirittura l’89,2% in Danimarca. Non va molto meglio a tutti gli altri. E siamo quasi ultimi anche in questo caso.
Mentre l’attività di formazione pedagogica riguarda solo il 19,5% degli insegnanti più giovani, e viene riservata quasi solamente a chi è di età superiore, probabilmente perché a tempo indeterminato.
Fonte: Eurydice, 2018
Forse anche per questo il monte orario totale che questi docenti hanno è inferiore a quello dei colleghi degli altri Paesi: 31,1 ore in totale contro 39 di media, o i 41,9 nei Paesi Bassi e addirittura i 49,3 in Inghilterra, dove gli insegnanti spendono più tempo nella preparazione delle lezioni o nella gestione delle attività della scuola.
Ma nonostante questo, e nonostante uno stipendio che è del 6% circa sopra il Pil pro-capite (al contrario che in alcuni Paesi dell’Est o del Nord Europa), solo il 20,8% è soddisfatto del salario. In compenso gli insegnanti italiani (sempre quelli delle medie, si intende) sono tra i meno stressati per il proprio lavoro.
Fonte: Eurydice, 2018
In sostanza lo Stato non stressa gli insegnanti, li fa lavorare un po’ di meno degli altri, li paga in modo appena dignitoso – ma essendo il salario uguale per tutti senza differenze regionali, essere del 6% sopra il Pil pro-capite nazionale vuol dire collocarsi sotto la media in tutto il Centro-Nord – ma non investe neppure in essi, soprattutto non lo fa con i più giovani, che sono pochissimi, e che non vengono formati ma destinati solo a riempire i buchi lasciati qua e là dai colleghi più anziani e a tempo indeterminato.
Tornare sui banchi abbandonando la Dad non potrà servire se non ad avere un “rimbalzo tecnico”, come con il Pil, se, come appunto in ambito economico, non verranno fatti investimenti massicci, in questo caso nella formazione del capitale umano, a cominciare da quello di chi si deve occupare di coltivarlo, il corpo docente.
Nel Pnrr del Governo c’è l’impegno a farli questi investimenti, finalmente. Ma gli anni da qui al 2026, ovvero alla fine del Next Generation Eu, sono tanti, e, lo sappiamo, nei palazzi della politica può succedere di tutto.