A conti fatti, l’ondata di populismo sembra essersi ridotta negli ultimi mesi. E le democrazie hanno resistito. In alcuni casi hanno subito più danni, come negli Stati Uniti, dove le iniziative per la riduzione del diritto di voto riflettono ancora l’influenza tossica degli anni di Trump, ma di sicuro sono rimaste in piedi. La loro struttura flessibile, dice questo articolo di Philip Stephens sul Financial Times, le fa apparire più deboli, quando in realtà la loro forza è la resistenza.
Lo stesso non si può dire, al contrario, delle autocrazie, che nell’articolo vengono paragonate all’acciaio al carbonio. Un materiale durissimo ma a rischio rottura se messo sotto pressione, soprattutto se le sollecitazioni sono improvvise. Per questo, nonostante le illusioni di stabilità, la Russia di Vladimir Putin, la Turchia di Recep Tayyıp Erdoğan e la Cina di Xi Jinping potrebbero vedersi rovesciate nel giro di poco. I loro governanti lo sanno benissimo e agiscono di conseguenza: la mossa principale è quella di trasferire i problemi all’esterno, individuare un nemico e additarlo al resto della nazione come la causa di tutte le difficoltà.
È una tecnica rodata che si vede all’opera anche nel testo della Strategia di sicurezza nazionale aggiornata e approvata da poco dal Cremlino.
Di nuovo c’è poco: presenze nemiche che circondano la Russia, Paesi ora definiti «non amichevoli» come gli Stati Uniti che spostano le loro forze militari vicino al confine, mentre continua il sistema delle sanzioni internazionali per indebolire l’indipendenza e la sovranità territoriale della Russia. A questa manovra a tenaglia si aggiunge anche un attacco culturale, una guerra di civiltà che si gioca sul terreno delle tradizioni e delle idee: il Paese deve difendersi dall’ingresso di ideologie e valori stranieri, il cui obiettivo è distruggere la coesione del tessuto sociale.
Non sono certo parole di un presidente che cerca una posizione di dialogo con l’Occidente. Ma sono le basi della propaganda di un governo che deve nascondere sotto il tappeto, o con il pretesto delle ostilità straniere, i problemi interni, sempre più gravi.
La Russia di Putin deve affrontare una crisi economica sempre più profonda, ha ancora il nodo della sua dipendenza dall’esportazione di olio e gas e vede la sua popolazione in diminuzione. Sul piano tecnologico non è più competitiva, mentre la corruzione onnipresente erode ogni fiducia tra i cittadini e lo Stato. Il futuro decarbonizzato è una delle questioni più complicate su cui ancora non c’è una soluzione.
Quello che Putin sa, e che sanno anche Erdoğan e Xi, è che il loro potere può anche essere brutale, ma non è sicuro. La repressione, attuata in più forme e livelli, è un’arma che serve più a spaventare che a risolvere i problemi del dissenso interno. Mentre l’apparente solidità dei loro regimi, se sottoposta a pressioni maggiori, potrebbe spezzarsi in modo inaspettato.
Anche per questo – soprattutto per la Russia – i piani di sviluppo risultano solo di facciata, mentre la vera ragione delle scelte politiche è di tipo estrattivo: togliere ricchezza e futuro ai russi per arricchirsi e, in più, tenerli sotto controllo. Quanto tutto questo durerà non è dato sapere. Ma la fine, quando arriverà, sarà repentina e disastrosa.