“The K&D Sessions”, cd doppio o (recentemente ripubblicato come) LP quintuplo, è la quintessenza della musica degli anni 90 che nell’ultima decade del millennio prende un ruolo di primissimo piano, se non addirittura il centro della scena. A detta di molti, prendendo addirittura il sopravvento nel ruolo di definizione del suono della musica popolare che aveva avuto il rock.
Se facciamo un rewind di un 25-30 anni, troviamo musica da dance floor in tutte le sue declinazioni, dal club al rave. In quella decade, dance ed elettronica si frammentano in una varietà di stili, e di tempi: c’è quella sù di ritmo, house e jungle e techno, e soprattutto in Gran Bretagna ed Europa quella downtempo, o trip-hop, una versione atmosferica, melodica, spaziale derivata e in risposta all’hip hop americano. C’è una intera scuola che all’inizio dei 90 si muove da Bristol, e dà il via a grandi band, dai Massive Attack e Tricky ai Soul To Soul e Portishead.
La musica degli anni 90 è anche l’era della musica reiventata dai DJ/remixer, non più quelli che in pista missano e allungano a scopo ballabile i brani, come si comincia a fare alla fine dei 70 con la disco e si prosegue poi con la house negli anni 80. Mentre ci si avvicina alla fine del millennio, diventano popolari come alcuni degli artisti che remixano: star in proprio, cercati e contesi per quella loro innegabile qualità di dare una seconda vita, un secondo livello di lettura, a quello che è già di per sé un gran brano. O magari non lo è ancora, o affatto, ma ha quello spunto, quella intrinseca qualità che i DJ sanno trovare e intorno alla quale sanno costruire qualcosa di nuovo, a volte di totalmente diverso. Del resto, nel mondo dell’elettronica in quegli anni accade quello che era successo nel punk negli anni 70: allora per metter sù una band là bastava picchiare su due accordi, ora se sai maneggiare un computer e un sampler sei già in pista.
Trippiamo e hoppiamo, allora, fin dentro la cameretta di due DJ austriaci, Peter Kruder e Ralf Dorfmeister, appassionato di computer il primo, musicista il secondo. È il 1993, e i due creano musica in libertà, senza pressioni commerciali, come alternativa ai dj set che cominciano a fare a Vienna e dintorni.
Mettono su una loro etichetta, la G-Stoned, un nome un programma (esistenziale), e pubblicano un EP con almeno un gran pezzo, “High Noon”, e una fantastica idea di marketing: sulla copertina ci sono loro, in b/n, esattamente nella posa di Simon & Garfunkel di “Bookends”.
Funziona, cominciano a farsi notare: «Erano i tempi dell’innocenza», ricordano in un’intervista interessante e varia a Rolling Stone Ed. Italiana per l’uscita di un loro recente inedito, l’ottimo “1995” che risale più o meno allo stesso periodo: «erano i tempi in cui realizzavamo i nostri remix da casa, in una sorta di studio-cameretta che giorno dopo giorno si arricchiva, ma insomma, non era certo uno studio professionale. Ed era proprio questo che rendeva tutto così magico. Fumavamo canne dalla mattina alla sera. Allora era proprio uno stile di vita per noi: ci alzavamo la mattina, facevamo colazione, ci facevamo una canna e ci mettevamo al lavoro. E continuavamo così fino a quando andavamo a letto. Dopodiché siamo andati a Londra, città che per noi era l’epicentro della musica, e abbiamo iniziato a inserirci nel mondo di etichette che amavamo, come la Ninja Tune e la Talkin’ Loud, e a produrre remix. E più ne facevamo più le richieste aumentavano, a un certo punto ne avevamo così tante che abbiamo dovuto persino cominciare a rifiutare alcuni lavori».
Gilles Peterson, francese di nascita e britannico di adozione, famosissimo dj radiofonico e titolare della Talkin’ Loud, etichetta in cui il downbeat si affianca all’acid jazz, altra musica di culto di quegli anni, apre il suo programma Worldwide sulla BBC, musiche rare anni 50 e 60 mischiate con suoni contemporanei, proprio con “High Noon”: «Ricordo ancora come fosse oggi il giorno in cui a Firenze mi passarono una cassetta demo di alcuni pezzi di questo duo austriaco K&D. Era così fresco e pulito, una collisione naturale fra soul beats britannici dei tempi come i Chimes o Soul To Soul con un po’ di hip hop strumentale americano e un soffio forte di erba di buona qualità. Ho suonato quel primo EP così tanto: leader e pionieri assoluti».
La Studio !K7, in quegli anni una delle etichette più attente al mondo sempre più importante dei dj, nel ’96 li inserisce nella loro collana DJ-Kicks, con un album da dj set nel quale c’è “High Noon” in mezzo a tanti altri: c’è un altro duo destinato alla gloria, i Thievery Corporation, e The Herbalizer, vero culto trip-hop dell’etichetta Ninja Tunes, ma anche molti sconosciuti, una caratteristica di quel mondo in rotazione perenne di nomi e nickname e sigle che durano una stagione: «Con DJ-Kicks è arrivato il successo vero e proprio: se fino a quel momento ci eravamo sempre mossi da soli per i nostri set, abbiamo cominciato a ricevere proposte per date ovunque. Negli anni ’90 le etichette e agenzie indipendenti erano davvero tantissime, per cui una cosa portava all’altra».
Sul mercato in quegli anni arrivano decine di serie di compilation diverse, ne ho due interi scaffali, moltissime di trip-hop. Il loro uso diventa pervasivo: sottofondo a casa, per lavorare, leggere, per i party, in macchina, persino come musica prima dei convegni aziendali. È il sottofondo perfetto, rilassato ma ritmico, melodico ma un po’ obliquo, riempie senza intrudere. Ma basta alzare un po’ il volume e va altrettanto bene: diventa musica d’ascolto, suono tecnologico ma caldo e orecchiabile, che in alcuni casi si può ballare, e che si sovrappone alla moda nascente del chillout, musica per riprendersi da roba, come la jungle o la house, che han tirato troppo muscoli e nervi.
È il suono del momento, insomma, ed è il mix fra generi che distingue ognuna di queste compilation: oltre a quelle di trip-hop, in testa a tutte quelle più ipnotiche della Ninja Tunes della Mo’ Wax e xxxxx, ci sono quelle di Acid Jazz e le Rebirth Of The Cool della Island, le Brasilectro e la nostrana Break’n’Bossa, le patinate Ambient Lounge e Hotel Costes. Tutti brani costruiti con campionamenti, un mix di basi ritmiche suonate e sintetiche con bpm molto vari, musica soul e jazz e bossa e hip hop e funky, firmati da nickname sconosciuti, oppure -se di artisti famosi- remixati.
I K&D in quegli anni diventano fra i remixers più ricercati su piazza, tanto che fra i tour come dj e i lavori in studio, che in alcuni casi durano anche due o tre mesi, trovano giusto e inevitabile rinunciare anche a nomi altisonanti come U2 e Bowie. Li rende speciali la cura e l’amore per i dettagli che mettono nel loro lavoro, c’è molto di più di un semplice rimissare le tracce, aggiungendo e levando e strecciando qualcosa qui e qualcosa là.
C’è chi incipria il brano originale solo con un maquillage superficiale e chi lo rende irriconoscibile, loro fanno qualcosa di diverso: ne cercano l’essenza, che sia la melodia o la voce o un giro di basso, e lo dilatano, aggiungendo strumenti, non solo elettronica. La batteria, per esempio, che è quasi sempre suonata, non elettronica, ma anche piano elettrico, marimbe, theramin, bollicine di synth e onde di riverbero, a volte persino una chitarra, che in queste produzioni è praticamente bannata. Non sono paesaggi sonori eleganti ma un po’ freddi, al contrario, il risultato è una musica organica, elegante ed eclettica, dove c’è sempre una piccola invenzione dietro l’angolo.
A volte prendono una ritmica e la mutano: un buon esempio è il brano d’apertura delle “K&D Sessions”, “Heroes” di Roni Size, il più importante interprete di quel genere che si sviluppa parallelamente in Inghilterra, il drum’n’bass, ritmi velocissimi che per qualche anno influenzeranno anche molta musica rock (prendi il Bowie di “Earthlings”): il ritmo originale lo sostituiscono con una sorta di bossa nova accelerata che lo rende meno nevrotico, più lounge tropicale di fine secolo, attenuano la vocalità ossessiva e la fanno entrare e uscire, ci gettano dentro una voce francese che lo trasporta fuori dall’Inghilterra e lo de-contestualizza.
I musicisti originali vedono che il loro brano diventa un’altra cosa altrettanto interessante, è come avere un alter-ego che lavora su altre frequenze: «L’arrangiamento è non ortodosso, ma mantiene l’attenzione di chi ascolta”, ha commentato Roni Size, “come esperienza d’ascolto funziona in salotto. Funziona in camera da letto. Funziona al pub, in macchina. Funziona dovunque tu sia».
Le “sessioni di K&D” è una raccolta dei remix più famosi, o riusciti, del duo fino al 1998. Ventuno brani e 126’ di musica, una vetrina creativa i cui originali sono il massimo dello spettro possibile: si ri-plasmano suoni di artisti che vanno dal drum’n’bass di Size e Alex Reece al synt-rock duro dei Depeche Mode, dalla violenza di Bomb The Bass al jazz-hop di Count Basic, dai loro simili del downtempo come David Holmes o Sofa Surfers (il surfisti del divano, che nome meraviglioso) fino al gangsta rap, per quanto melodico, di Bone Thugs N-Harmony. Costellazioni lontane, eppure l’album ha un suono omogeneo, il loro stile a creare un fil rouge dall’inizio alla fine, sempre musica leggerissima e inventiva, ariosa e mai claustrofobica, stuzzichevole e aseduttiva, con tinte che possono essere più o meno dark, ma sempre fluide e scorrevoli. Non sono semplici remix, ma reinvenzioni. Brani in buona parte risuonati, vere session marcate K&D.
È un viaggio sonoro fascinoso e con molte sorprese, tutti i brani che scivolano uno dentro l’altro come un vero dj set, natu¨rlich, che si apre con quell’inconfondibile suono, un wah wah morbido di tastiera, una sorta di bolla d’aria, un’onda che si espande e rientra e si espande ancora, mentre tutto intorno nascono e si intrecciano suoni di sirene lontane e riff di fisarmonica e una voce tres parisienne. Premesso che è sempre difficile descrivere e spiegare i suoni, perché la loro origine (naturale? sintetica?) è sempre dubbia, la lezione del dub jamaicano è la linea guida (anche se con tutt’altre sonorità): strumenti che entrano e scompaiono, a volte in un eco, a volte sfumando, ma il gioco è sempre addizione e sottrazione, e bisogna aver una gran classe per surfare con la misura giusta.
“Jazz Master” di Alex Reece è una bossa, è la lounge che apre i battenti, la hostess con il suo da-da-da che ti invita sederti, un dolce piano elettrico che si intreccia con un sax là in un angolo in sottofondo, e quando tutto sembra diventato comfort zone e aspetti il cameriere, cambiano le luci e muta in un drum’n’bass educato che ti porta fino alla fine. “Speechless” di Count Basic (le citazioni in questi nickname abbondano) è uno dei miei preferiti: un basso profondo, un po’ dark, che dà la melodia, e sotto drum’n’bass mentre i vocalizzi di lei ti ricordano che sei in zona “senza parole”.
È, a modo suo, una musica minimale, due strumenti per reggere il tutto, qualche tocco di tastiera sul quarto quarto, finché come spesso accade in questi brani a metà c’è un cambio di scenario, e il synth entra a fare la sua parte, con qualche tocco di tastiera e sussurri in mezzo a un delirio di poliritmìa.
“Going Under”, dei loro consimili austriaci Rockers Hi-Fi, inizia con una dilatazione un po’ floydiana, un downtempo molto jazzato, pieno di break, linea di basso che tiene su l’impalcatura, tutto con effetto wah wah; procede con questa voce sussurata, un po’ dark, che con tono soft e minaccioso insieme racconta del lato oscuro del girare per clubland la notte, «che ti richiede così tanto/perché di notte ho mille sogni e quando mi sveglio/ prego il Signore di portarmi via da questa vanità, amore e insanità/Ho troppa pressione addosso, mentre la pioggia mi batte in faccia/e sto andando sotto».
“Bug Powder Dust” è un hit del ‘94 di Bomb The Bass, al secolo Tim Simenon, produttore e dj i cui brani -da lì il nome- sono imperniati su una linea di basso potente bombardata da altri strumenti.
Testo e rap dell’americano Justin Warfield assolutamente irresistibile e altrettanto intraducibile, che parte con la voce a secco di un intervistatore che chiede a William Burroughs “possiamo adesso discutere la tua filosofia dell’usare le droghe come mezzo artistico?” prima che il basso pompi e le parole chitarre batteria e voce di Warfield precipitino bombasticamente sul basso (in questo caso quella del jazzista Alphonso Johnson, ex-Weather Report, campionata da un disco di Flora Purim). Cita ‘The Naked Lunch’ di Burroughs, “I’m like Bill Lee when he’s in Tangiers”, e di tutto di più, dal capitano Kurtz a William Tell, con quel ritornello il cui ritmo + le parole vi si stamperanno in mente per sempre (traducelo voi, se ci riuscite):
“Bug powder dust an’ mugwump jism
The wild boys runnin’ ‘round Interzone trippin’
Letter to control about the Big Brother
Tryin’ like Hart to not blow my cover”
Quello che nell’originale è irresistibile per rima e funkyness, K&D lo tengono in uno stato di sospensione liquida, melodie sfuggenti e synth delicati che smussano ogni angolo; ogni tanto il ritmo della base synth raddoppia, poi si ritorna, poi si riparte, funkitudine elegante condotta dal basso elettronico 303. È decisamente -come si diceva prima- trasformato in qualcos’altro, ancor di più nella versione lenta, dub, sul secondo cd, ancora più scarna e oscura.
Quando di colpo s’interrompe, entriamo decisi in zona downtempo: più sottilmente melodica senza indietreggiare di un beat quella “Rolling On Chrome” degli Aphrodelics, linea di batteria magistrale, che spinge e rompe, «let’s roll, mutherfucker, let’s roll» e il pezzo fa esattamente questo, finchè si spegne in mezzo a un turbinio di effetti e ne fuoriesce “Useless”: sorgono insieme la maestosa linea di basso e la voce di Dave Gahan dei Depeche Mode (da “Ultra”, ’97, prodotto proprio da Tim Simenon), tastiere ed effetti a sostituire la chitarra acida, batteria che spezza e raddoppia il rullante invece di quella quadratissima dell’originale, che ogni tanto svanisce, sostituita da un burp-bip-bip di tastiera che dà un ritmo da giocattolo e porta il brano fino al punto in cui è perfettamente logico che rientri la batteria e capisci che, nonostante la voce e il basso, è davvero un’altra cosa rispetto alla cupezza dell’originale.
Ancora una linea di basso con una batteria effettata che swinga fra rullanti e tom nel secondo pezzo di Count Basic, “Got Jazz”, e ce l’hai davvero il jazz, amico, anche parecchio acido. Variazioni minime, anche nei vocalizzi di lei, finchè una segreteria telefonica annuncia «end of messages» e ne parte una cattiva, Donauschingen (Peter Kruders Donaudampfschifffahrtsgesellschaftskapitänskajütenremix (checcavolovorrà dire?)), drumming jazzistico pesante (per quanto possibile visto il contesto), clavinet con distorsore come potrebbe essere un Herbie Hancock o uno Stevie Wonder d’annata. Il rifacimento di “Trans Fatty Acid” dei Lamb, un altro duo di punta del downbeat, è molto meno quadrata e paranoica e distorta dell’originale, ritmica e strumenti diversi, solo la voce di Lou Rhodes a condurre le danze.
Si cambia cd, e il secondo è meno eccelso del primo, anche se cose interessanti ci sono ugualmente: “Sofa Rockers” degli Sofa Surfers (la pratica di passare da un divano all’altro di parenti o amici, o quando sei senza casa e cerchi un posto dove dormire) è un esempio perfetto di downtempo leggero e ondeggiante, “you got me spinning around”, nient’altro da aggiungere.
Uno dei massimi hit di rap americani, “1st of tha Month” dei Bone Thugs N-Harmony viene trasformato in un chill out, «smoke a lotta weed…burn…burn!» preso alla lettera, vive in una nuvola di fumo in un tempo lento con pause e ripartenze che invitano a fare il sofa surfer professionale. “East West (Stoned Together)” di Mama Oliver (?), sempre sulla stessa vibe, è, come il titolo suggerisce, da strafatti insieme.
K&D firmano “Boogie Woogie”, che tradisce il titolo ed è puro ambient, un mellotron e una chitarra acustica, “Sin” è peccaminosa il giusto, con echi dei Black Uhuru, e la tipica espressione “bomboclaat” dei jamaicani nel remix dei Knowtoryus diventa “Bomberclaad”.
Anche “Going Under”, così come “Bug Powder Dust” viene filtrata dal trattamento dub, che la rende ancora più sofferta esistenzialmente, voce in primo piano come un recitato fra suoni che sfuggono via per le tangenti e percussioni elettroniche squittenti che creano un clima inquietante il giusto.
Ci starebbe stata alla grande in uno scenario tipo Blade Runner. ‘‘Million Town’, più delicata e aerea, chiude il viaggio.
Più di 20 anni dopo, le “K&D Sessions” rimangono una fotografia di un momento storico preciso, ma reggono ancora benissimo, perché la classe non è acqua, e la loro interpretazione dell’idea di re-visione, il loro «strano ibrido di amore per il passato e di amore per il futuro» gli dà uno spessore da “game changers”, come si chiamano gli originatori, quelli che inventano e non copiano. In un bellissimo articolo su DJ Mag, Colm O’Luoghlin nel 2015 ha scritto: «Questa è musica che ha ottenuto il raro risultato di mischiare sapori di dance elettronica con un suonare organico, umano, in un modo che funziona senza soluzioni di continuità. E nella sua maniera di mischiare gli stili, è stato precursore pre-millenario del mix post-moderno, post-tutto, che abbiamo adesso. Ed è stata abbastanza per Peter e Richard che hanno continuato con altri progetti (Tosca per Kruder, Peace Orchestra per Dorfmeister), forse per non macchiare l’eredità che avevano creato».
Forse, anche se due anni fa una reunion live c’è stata, e sono passati in una splendida notte d’estate a Villa Ada, a Roma, per un djset/performance che purtroppo ha toccato ben poco di questo album, più dance elettronica che downtempo.
Sempre a Rolling Stone Ed. Italiana hanno detto: «Sai, ciò che facevamo piaceva, però si trattava comunque di musica underground. Solo che d’un tratto era diventata così popolare che chiunque voleva qualcosa da noi, tutti volevano diventare nostri amici, averci ai loro party… Ma noi abbiamo sempre fatto musica per altre ragioni, non per la celebrità, ma per amore per la musica, perché è la nostra passione e non possiamo fare altro. Non era nei nostri piani diventare così famosi, naturalmente è stata una fortuna che alla gente il nostro lavoro sia piaciuto così tanto, ma con i pro sono arrivati anche i contro».
Forse non erano nati star, anche se i loro trattamenti hanno aiutato tante star a varcare i propri confini, i propri limiti, e diventare qualcosa che da soli non sarebbero mai riusciti a raggiungere.