Qualunque cosa pensiate nel merito del compromesso raggiunto sulla prescrizione – a me pare comunque preferibile all’alternativa, cioè nessuna riforma, vale a dire tenersi la legge Bonafede – c’è qualcosa di significativo nel metodo con cui ci si è arrivati su cui vale forse la pena di riflettere. Ed è il modo in cui Movimento 5 stelle e Lega hanno ottenuto sostanziali modifiche.
Fino a tre giorni fa, infatti, il problema politico della prescrizione consisteva nel fatto che i ministri del Movimento 5 stelle avevano siglato un accordo che Giuseppe Conte, con Alfonso Bonafede e altri esponenti del suo partito, aveva bruscamente sconfessato, chiedendo ulteriori modifiche al governo, ma dimenticandosi di chiedere contestualmente le dimissioni dei ministri del suo partito che tale insoddisfacente accordo avevano siglato. Un comportamento singolare per un leader al momento nemmeno formalmente in carica. Ma comunque surclassato dalla minaccia di dimissioni, in mancanza delle suddette modifiche, successivamente avanzata dalla ministra Fabiana Dadone, dopo avere votato la riforma così com’era e pure la richiesta di fiducia del governo su quello stesso testo (personalmente, è la prima volta che sento una ministra minacciare di dimettersi qualora la maggioranza si azzardasse a rispettare un accordo da lei sottoscritto, e non credo sia un limite della mia memoria).
Fino a tre giorni fa, dunque, la situazione era la seguente: da un lato il Movimento 5 stelle, impegnato nel chiedere ulteriori modifiche, con un tiepido appoggio del Pd (dove «tiepido» è un eufemismo che andrebbe forse sostituito con «vile», per non dire di peggio), dall’altro lato la Lega di Matteo Salvini e il resto del centrodestra a chiedere di rispettare l’accordo e non snaturare la riforma. Posizione in apparenza perfettamente coerente con la linea garantista inaugurata con la mobilitazione leghista per i referendum promossi dai radicali sulla giustizia. Meno con il voto a favore della riforma Bonafede, ovviamente, ai tempi del governo gialloverde. Ma si sa che ormai due anni rappresentano un secolo, nella politica italiana, e specialmente per la Lega, che due anni fa ancora voleva uscire dall’euro e oggi candida Mario Draghi al Quirinale.
Il problema non è infatti cosa si diceva due anni fa, ma due giorni fa. Perché due giorni fa, di fronte alla richiesta dei cinquestelle di escludere dagli effetti della riforma i processi di mafia, ecco che il garantista Salvini, promotore dei referendum per la giustizia giusta, difensore della riforma da ogni stravolgimento – fino al giorno prima – che cosa dice? Dice che va bene, ma allora bisogna escludere anche stupro e reati legati alla droga. Seguito, preceduto, accompagnato – difficile stabilire chi arrivi prima, in una simile gara – dai parlamentari cinquestelle che subito fanno sapere che escludere i reati di mafia va bene, ma ovviamente non basta.
L’argomento di Salvini è che stupro e spaccio sono reati odiosi, e dunque «voglio vederlo qualcuno in Parlamento che si alza dicendomi: no, lo stupro e lo spaccio sono meno gravi». Ragionamento da cui si capisce come per il leader della Lega – esattamente come per i cinquestelle – la ragionevole durata del processo sia un diritto valido solo nel caso in cui si venga accusati di reati che l’opinione pubblica consideri tutto sommato tollerabili. Ma soprattutto si capisce come per gli ex compagni di governo gialloverdi in Italia viga la presunzione di colpevolezza, e la gravità dell’accusa sia già una colpa da scontare, anche da innocenti.
Dopo un maldestro tentativo di inscenare una contrapposizione con la Lega proprio sulla questione dei reati di mafia, Conte ha concluso i suoi tre minuti di trionfalistico commento alle decisioni appena prese a Palazzo Chigi con le seguenti parole: «Questi miglioramenti non ce li dobbiamo intestare noi come Movimento 5 stelle. Questi sono miglioramenti che omaggiano tutte le vittime della mafia».
Sarebbe bello vivere in un paese in cui le forze politiche, nel legiferare su una materia così delicata come i diritti dei cittadini che finiscono sotto processo, tenessero in considerazione soltanto cosa è più giusto, per tutti, non cosa è più popolare in quel momento. L’idea che un intervento legislativo sui diritti degli imputati possa essere considerato un «omaggio» alle vittime di quei reati la dice lunga, invece, sul paese in cui viviamo.