Ma se vi dicessi che della legge Zan non m’importa niente, voi mi rinfaccereste l’averci scritto non so più quanti articoli? Temo di sì, e non so darvi torto. D’altra parte non m’importa niente neanche del calcio, e nei giorni scorsi ho scritto d’un torneo che non ho mai guardato.
Il fatto è che certi argomenti sono pervasivi: per quanto tu voglia farti notare di più sottraendoti alla pista da ballo, poi stare in un angolo pare impossibile. Mi terrorizza che torni a spopolare la discussione sulla dad, altro tema (anch’esso di tre lettere) di cui non mi frega nientissimo e del quale sembra non si possa non parlare (altro tema su cui ho scritto un numero ridicolo di articoli).
In tutti questi mesi in cui mi hanno frantumato la pazienza con la Zan, io una sola cosa volevo: leggere un’intervista a Nichi Vendola. Il perché credo sia ovvio, ma magari tra un po’ lo esplicito.
Prima lasciate che vi dica che ieri un quotidiano ha intervistato Vendola, e gli ha fatto otto domande. Tra le quali non c’era quella per la quale aspettavo un’intervista a Vendola.
Il fatto è che, come tutte le discussioni insopportabili, il dibattito sulla Zan è uno scontro tra opposti invasati. Tra fanatici speculari.
Da una parte quelli che solo se si approva la legge smetteremo tutti di vivere nel terrore che – qualora uomini con lo smalto o donne in pantaloni – ci pestino a sangue appena usciamo di casa.
Dall’altra quelli che la transessualità vuole cancellare le donne.
(Mentre scrivo queste righe, il Senato dibatte sull’eventuale calendarizzazione della Zan, gente che urla, nasi che escono dalle mascherine – sia arcobaleno, sia tinta unita – e toni da fine del mondo: come sempre la classe politica somiglia all’elettorato).
E quindi i fanatici proZan s’indignano per il senatore della Lega che dice che «se c’è il genere neutro è più facile vendere smalti», come se l’appropriazione delle buone cause da parte delle multinazionali fosse una fantasia concepita a Varese. Consiglio la visione d’un qualunque spot scritto da gente che sa vendere i concetti meglio dei senatori, per esempio questo in cui il nostro shampoo vi torna buono per lavare le lunghe chiome della vostra bambina transgender, accattatevill’.
E i fanatici antiZan s’indignano perché, non ho capito bene con quale nesso, oggi è l’identità di genere e domani è l’utero in affitto. Nella mia logica, semmai la gestazione – per altri o per sé – è una delle poche cose per le quali l’identità di genere te la dai in fronte: o sei biologicamente donna, o sei esclusa; ma sarà che manco di fantasia.
E insomma ogni volta che in questi mesi veniva fuori la gestazione per altri io pensavo a Vendola e pensavo a Lakoff.
George Lakoff è un linguista americano che nel 2004 divenne autore di bestseller (l’ambizione di chiunque scriva, anche solo poesie sul diario) grazie a un’intuizione minuscola: il concetto di “framing” poteva essere pop. “Framing” è quella pratica della politica (o meglio: della conversazione) per cui un concetto può essere venduto all’elettorato se ridotto ad abile slogan. Se vuoi combattere la tassa di successione devi avere, come ebbero i repubblicani americani, la prontezza di spirito di chiamarla death tax: chi mai appoggerebbe una tassa sulla morte, suvvia. Se vuoi dire che la gestazione per altri fa schifo devi chiamarla utero in affitto: vuoi mettere quant’è orrendamente evocativa l’immagine.
Il libro con cui Lakoff divenne un autore famoso s’intitolava Non pensare all’elefante, come da concetto che qualunque nutrizionista da cui siate andati tentando di rimettervi in forma prima dell’estate vi avrà ripetuto: il cervello non registra il «non», più ti ripeti «non devo mangiare» più avrai fame. Se dici a qualcuno di non pensare all’elefante, non riuscirà a pensare ad altro che all’elefante.
Vendola è l’elefante taciuto del dibattito sulla Zan: ogni volta che qualcuno evoca la gestazione per altri, sta chiaramente alludendo a lui. A lui che, con il suo compagno Ed, ha avuto un figlio in Canada con la gestazione per altri. Non è un pettegolezzo: col bambino, Ed e Nichi hanno posato per i rotocalchi; ci sono interviste in cui il padre racconta della donna che ha donato l’ovulo e di quella che ha portato avanti la gravidanza; non è un pettegolezzo, è un elefante che fingiamo di non vedere quando parliamo del modo in cui è nato quel bambino come effetto indesiderato e pericoloso d’una legge di cui peroriamo l’approvazione.
La gpa, ferocemente avversata in Italia dalle femministe antiZan, è ordinariamente usata in America, dove la maternità è evidentemente considerata meno un sacramento e più un lavoro domestico come gli altri: se non hai voglia di farlo, paghi qualcuna che lo faccia per te. Hanno avuto figli con la gpa Sarah Jessica Parker e Nicole Kidman e Shonda Rhimes e chissà quante altre biologicamente donne e persino eterosessuali.
In Italia sembra che si parli di bambini rapiti, il che attiene alla sensibilità culturale di ognuno, ma allora bisogna essere conseguenti: col figlio di Vendola quindi che facciamo? Se domani un cantante gay torna dalla California con un figlio, glielo sequestriamo e lo restituiamo alla madre biologica (che plausibilmente non lo vuole)?
Le più estremiste chiedono che la gestazione per altri sia reato universale (non vedo l’ora che i figli di qualche attrice fantastiliardaria vengano trattenuti al confine la prima volta che la madre viene a promuovere il film in Italia, giacché essi costituiscono reato. Universale, nientemeno).
Ma perlopiù non si sa come fare con una cosa che qui non puoi procurarti ma all’estero sì: quest’elefante è il grande non detto del dibattito. E, a Vendola, nessuno ha ancora chiesto: scusi, come la fa sentire il fatto che, quando si parla dei più deleteri effetti che potrebbe avere la Zan, si parla di suo figlio? Se qualcuno avesse la cortesia di chiederglielo, quello sarebbe il primo pezzo sulla Zan che avrei voglia di leggere.