Le immagini di Simone Biles che abbandona l’arena durante la finale a squadre di ginnastica artistica è una delle più potenti e significative delle Olimpiadi di Tokyo. Un momento destinato a segnare la storia dei Giochi, in qualche modo: l’atleta più attesa di tutta la manifestazione, quella con più attenzioni da parte della stampa mondiale, si è ritirata dalla gara dopo un volteggio nettamente al di sotto dei suoi standard – successivo a un preliminare sottotono nel giorno precedente.
«Nessun infortunio, solo una piccola ferita al mio orgoglio», ha detto Biles dopo la gara – vinta dalle ginnaste russe, argento per i suoi Stati Uniti. «Devo concentrarmi sulla mia salute mentale e non compromettere la mia salute e il mio benessere», ha aggiunto in conferenza stampa. Poche ore dopo è arrivata l’ufficialità del suo ritiro anche dalla competizione all-around che si svolgerà oggi.
Dopo il turno preliminare aveva postato su Instagram una sua foto, in cui ha un’espressione visibilmente preoccupata prima della sua prova. «Non è stata una giornata facile o la mia migliore, ma l’ho superata. A volte mi sento davvero come se avessi il peso del mondo sulle spalle. So che lo scaccio via e faccio sembrare che la pressione non mi colpisca, ma a volte è difficile ahahah! Le Olimpiadi non sono uno scherzo», aveva scritto nella didascalia.
Il ritiro di Biles riprende un discorso sulla dimensione psicologica di certe manifestazioni sportive, sulla pressione che gli atleti sono costretti a sopportare, sulle difficoltà che possono frenare anche chi in carriera ha vinto 4 ori olimpici, ha rotto tutti i record di vittorie mondiali, ha esercizi di ginnastica che portano il suo nome. L’argomento era stato ripreso recentemente anche dalla tennista giapponese Naomi Osaka, che a maggio si era ritirata da Roland Garros.
Entrambe, Osaka e Biles, hanno voluto porre l’attenzione sul peso di dover vivere in un ambiente in cui è contemplata solo la vittoria, in cui il risultato-a-ogni-costo è praticamente una religione. Una mentalità che può essere dannosa, controproducente per gli atleti e le atlete di ogni disciplina.
Tra l’altro Osaka e Biles rappresentano una élite sportiva, sono due campionesse già arrivate ai vertici del tennis e della ginnastica artistica. È chiaro che dal loro status derivi una pressione enorme, ma è un discorso che – in misura e in modalità diverse – vale anche per chi vuole fare dello sport il suo lavoro ed è costretto a muoversi in un ambiente che gli impone di sacrificare tutta la sua vita per quello. Spesso senza ricambiare adeguatamente.
In un lungo articolo di fine giugno il New York Times entrava nelle pieghe delle carriere dei tennisti, raccontando le difficoltà di affrontare ogni torneo sapendo di dipendere economicamente dal risultato raggiunto, dovendo far fronte a spese importanti per spostamenti e soggiorni in tutti i continenti. Ovviamente l’analisi si concentra su tennisti che non si chiamano Roger Federer, Rafael Nadal o Novak Djokovic: riguarda una fascia più bassa del ranking mondiale, quella che prova in tutti i modi a emergere e raggiungere le prime 100 (o 50) posizioni della classifica.
È un tema spinoso che riguarda il sistema dei compensi degli atleti, i loro impegni dopo la carriera, la capacità di reinventarsi dopo aver imparato a convivere con ansia, stress, competitività. È un tema che interessa praticamente tutte le discipline sportive.
Il Financial Times ha pubblicato un articolo di commento, firmato da Andrew Hill, in cui racconta le difficoltà – lavorative, psicologiche, umane – a cui può andare incontro un atleta che non riesce ad ambientarsi nel suo post-carriera. È sempre più importante crearsi una vita al di fuori del campo, della pedana, del tatami, o quel che è: «Legare la tua identità allo sport e alla vittoria a ogni costo può farti inciampare nello sport e nel business», si legge nell’articolo.
L’autore cita Janne Müller-Wieland, giocatrice e capitana della squadra tedesca di hockey su prato che in vista dei Giochi di Tokyo è stata tagliata dalla nazionale – per ragioni sportive – nonostante una partecipazione da protagonista nel bronzo conquistato a Rio cinque anni fa.
«Non essere convocata per Tokyo è stato un duro colpo, ma a differenza di molti dei suoi compagni dice che la sua identità non è legata al suo sport. Lei e sua moglie hanno da poco avuto un bambino, un’esperienza che “non cambierebbe per niente al mondo”. È co-fondatrice di Unthink, una società di consulenza per lo sviluppo della leadership, e ha già un curriculum da imprenditrice», scrive il Financial Times.
Janne Müller-Wieland, intervistata dal quotidiano britannico, esprime un concetto che molti atleti di quest’epoca ripetono spesso, dimostrando di non volersi appiattire sullo sport: «So di essere più di una semplice giocatrice di hockey».
Molti atleti si interrogano sul futuro, su quel che viene dopo quei 10, 15, 20 anni (chi ci riesce) in cui si compete nella propria disciplina.
A Tokyo una delle medaglie vinta da Team Italia nella scherma porta la firma di Daniele Garosso: il ragazzo di 28 anni, nativo di Acireale, non è riuscito a ripetere l’oro di Rio 2016, è stato sconfitto nella finale individuale di fioretto (15-11) da Cheung Ka Long, ma il suo argento è comunque un ottimo risultato.
Mentre Garozzo era sul podio i social e i giornali si affrettavano a far sapere al mondo che non si tratta solo un grande campione quando tira: alle ore spese in pedana, Daniele abbina un impegno profondo nello studio, per laurearsi in Medicina all’Università di Tor Vergata. Più volte ha dichiarato di essersi dato parecchio da fare durante il lockdown per preparare gli esami e distogliere l’attenzione dalle restrizioni che impedivano le gare.
La scelta di Daniele Garozzo non è solo dettata dalla passione per la medicina, ma anche la necessità di costruirsi un futuro che vada oltre il fioretto, oltre la carriera di atleta. Se è vero che lo sport, per un campione come lui, è un lavoro a tutti gli effetti, è anche vero che la carriera di uno schermidore – come quella di molti altri sportivi – è più corta di quella di un lavoratore medio.
Il Financial Times cita Kelly Holmes, ex mezzofondista britannica che ha raggiunto risultati eccezionali in carriera: è stata medaglia d’oro negli 800 metri e nei 1.500 metri alle Olimpiadi di Atene del 2004. Ma lo stress della vita da atleta è stato, anche per una campionessa come lei, insostenibile: nel 2003 ha subito numerosi infortuni alle gambe che l’hanno demoralizzata al punto da portarla commettere atti di autolesionismo – successivamente avrebbe ammesso anche di aver pensato al suicidio. Le è stata diagnosticata una depressione clinica, che non ha potuto curare con gli antidepressivi perché avrebbe rischiato di influenzare le prestazioni sportive.
Dopo quel momento la sua carriera è decollata di nuovo con i Giochi del 2004, a dimostrazione di una grande forza mentale. Ma i risultati sportivi possono essere effimeri: dopo il ritiro, avvenuto del 2005, più volte ha ammesso di essersi sentita depressa per la perdita di identità, per l’assenza di riferimenti.
«Un sondaggio fatto su olimpionici e altri atleti americani nel 2001 rivelava che i due terzi degli intervistati temeva per il loro futuro dopo il pensionamento. E il 43% aveva difficoltà a entrare nel mondo del lavoro. Un altro sondaggio, svolto nel 2018 dalla Federazione dei giocatori professionisti del Regno Unito, ha mostrato che la metà degli ex atleti non si sentiva in controllo della propria vita a due anni dalla fine della carriera», scrive il Financial Times.
Per un’atleta può essere difficile sentirsi davvero pronto al ritiro, cioè al momento in cui si dice basta a quello sport a cui ha dedicato la sua vita: concentrarsi su un nuovo lavoro può essere molto meno stimolante.
«Il passaggio a un altro posto di lavoro è destinato a essere difficile per qualsiasi atleta d’élite», si legge nell’articolo.
L’esempio perfetto, citato dal Financial Times, è quello di Cath Bishop, vogatrice olimpica che a fine carriera si è reinventata come diplomatica e leadership coach. Intervistata da Andrew Hill, Bishop sottolinea che nel canottaggio in genere non si fanno grosse rinunce durante l’adolescenza, a differenza ad esempio del nuoto o della ginnastica, che comportano sacrifici maggiori. Ma nonostante l’approccio diverso anche i vogatori hanno un livello di concentrazione e di dedizione non paragonabile a quello di altri luoghi di lavoro: «Può essere una sorpresa rendersi conto che non tutti in ufficio cercano di essere il meglio che possono essere ogni giorno», si legge nell’articolo.
È anche l’abitudine ai piccoli gesti quotidiani a fare la differenza. Janne Müller-Wieland ad esempio ricorda come uno shock il fatto di non ricevere feedback su ogni cosa che fa nella sua nuova vita.
«Gli atleti in pensione, anche se sono in ritardo sul posto di lavoro e a corto di competenze tecniche, hanno molto da offrire ai datori di lavoro in termini di grinta, abnegazione e capacità analitica», dice il Financial Times.
Ma la devozione alla vittoria, il successo-ad-ogni-costo, non è così produttivo come sembra. Forse nemmeno nello sport, come suggeriscono alcune storie. La stessa Cath Bishop nel suo libro “The Long Win” racconta di aver ottenuto le sue migliori prestazioni nei primi anni 2000, quando aveva già iniziato una nuova carriera e non pensava solo al canottaggio: si è concentrata sul divertimento e sui dettagli dei suoi compiti da vogatrice, sui motivi per cui ha remato e sulle persone con cui stava collaborando piuttosto che sul mero obiettivo della vittoria. E quasi come se fosse un sottoprodotto di tutto questo, il nuovo approccio l’ha portata a vincere un titolo mondiale e una medaglia olimpica.