La democrazia non si esporta: su questa trincea difensiva, se non elusiva, si colloca una parte importante delle reazioni agli eventi devastanti dell’Afghanistan. Alcuni lo dicono per derubricare la vicenda ai tanti conflitti nell’(ex) Terzo mondo; altri probabilmente con sincero rammarico. Un po’ come dire: prendiamo atto che non si può fare e andiamo avanti. Avanti dove?, ci chiediamo.
Il problema, però, non è se quest’affermazione sia vera o non vera. Talvolta la democrazia si è affermata con le baionette: la Rivoluzione francese, quella americana, la Seconda guerra mondiale, per dire quelle che hanno segnato la nascita della democrazia moderna. Altre volte la democrazia è stata battuta con le baionette e altre ancora, paradosso di alcuni Paesi del Nord Africa, è nata dal tumulto (Arab Spring), ma è stata prima esautorata e poi negata dal voto (vittorie dei Fratelli Musulmani). Il vero problema è quello che dobbiamo fare noi sostenitori della democrazia, o almeno quello che dovremmo pensare.
Filippo Andreatta, nome personalmente e per via familiare altamente apprezzato, sostiene la tesi secondo cui la democrazia, al massimo, si può reintrodurre dove c’era già stata (caso dell’Europa Occidentale con l’”esportazione” americana e inglese), ma non dove non c’è mai stata. Afferma con nettezza sul Foglio: «Laddove l’intervento ha riguardato un Paese che non era mai stato democratico in precedenza, il tasso (di riuscita) è zero». In verità, Andreatta dimentica il secondo Paese più popoloso al mondo, l’India, che ha conosciuto la democrazia dall’Inghilterra coloniale ed è oggi uno Stato democratico (vige il diritto, si fanno regolari elezioni, ecc.). Si può imparare la democrazia importata dall’esterno. In fondo, se guardiamo alla storia dell’Impero romano, è stata la stessa cosa: i barbari venivano “democratizzati”, cioè resi cittadini romani, attraverso il concetto di “civitas”, non fondato sulla stirpe o sull’etnìa. Quindi abbiamo esempi di fallimento dell’esportazione della democrazia ed esempi di successo.
Se su questo concetto potremmo dire «Ça se discute», non dovremmo mai e poi mai discutere sui diritti umani. Nel caso dell’Afghanistan si tratta proprio di diritti umani: diritto alla vita; diritto all’integrità personale; diritto delle donne di non essere considerate oggetti; diritto alla libertà (per me la libertà è un diritto umano). Se anche fossimo d’accordo che non si interviene per “esportare” la democrazia, allora si dovrebbe farlo per difendere i diritti umani di base. Non credo che nessuno, in nessun Paese del mondo, almeno di quelli cresciuti nella civiltà cristiana, possa negare l’inalienabilità dei diritti umani. Siamo intervenuti in Kosovo per motivi umanitari e per la stessa ragione in altri Paesi. Vedete in Afghanistan delle violazioni minori rispetto alle quali siamo più volte, come Occidente, intervenuti? Io no.
«Ok», si dirà, «facciamo solo interventi umanitari». Resta da capire come si possa rispondere alla violenza crudele dei talebani offrendo solo ospedali, medicine e beni alimentari. Allora si risponde dicendo che bisogna lasciare da parte la democrazia, cambiare la piattaforma programmatica per centrarla sulla difesa dei diritti umani, ma non (necessariamente) sulla democrazia. Se fosse possibile, direi, se fosse possibile; ma è possibile?
Scaviamo più a fondo e scopriremo che è difficile, forse impossibile, disgiungere i due temi della difesa dei diritti umani dall’affermazione della democrazia: sebbene non coincidano perfettamente: la seconda è il naturale sviluppo dei primi e i diritti naturali devono avere un contesto giuridico coerente, altrimenti non esistono, e se non è quello democratico, qual è questo contesto giuridico?
Se una persona non è libera di non aderire alla sharia, cioè alla legge islamica, bisogna che ci sia una legge che disponga e organizzi questa libertà. Una legge di tale natura non può che essere fondata sulla primazia della persona (e sulla sua inviolabilità), ma se un regime sostiene che non esiste il diritto, ma solo la legge religiosa, capiamo che quel diritto umano non sarà mai difeso. Altri esempi: se la fonte del potere è etnica, come si fa ad avere un’effettiva uguaglianza delle persone? Se il sistema giudiziario non fa vere indagini e non giudica permettendo i diritti della difesa, come si fa a ottenere il rispetto dei diritti umani? Se la fonte del potere è la forza fisica (avere più armi, conquistare il potere con le armi, come in queste ore in Afghanistan), come si può pensare che in quel Paese il governo agisca nel rispetto dei diritti umani?
Tutto si tiene: l’inviolabilità della persona ci porta a ipostatizzare uno Stato di diritto; uno Stato di diritto ci porta a definire le fonti del potere, che devono essere fondate su principi giuridici; una volta che abbiamo un’uguaglianza formale e sostanziale delle persone (figlia della concezione cristiana dell’irriducibilità della persona umana) sostenute da un sistema giuridico, ecco descritta la democrazia. Difficile uscire da questa coerenza. Naturalmente, sappiamo che ci sono molte forme che la democrazia assume, ha assunto o può assumere, ma questo non elude la questione della struttura giuridica dello Stato, negata quando una legge basata sull’etnia (come nel caso, in Cina, della segregazione degli uiguri) o sulla religione, non abbiamo uno Stato di diritto.
Allora possiamo arrivare alla conclusione: se non siamo convinti che la democrazia si possa esportare, dobbiamo comunque assumere, come la nostra morale ci impone, di intervenire nei casi di violazione dei diritti umani (sennò non avrebbe senso, ad esempio, pretendere un vero processo per l’uccisione di Giulio Regeni). Ma, se assumiamo su di noi l’onere e l’onore della difesa dei diritti umani, dobbiamo allora dire che il sistema migliore (se non l’unico) per difendere davvero e compiutamente i diritti umani sia quello di affermare la democrazia. Naturalmente nei modi, nelle proporzioni, nelle possibilità storicamente date e che ci sono concesse. E se tutto questo non si può fare tutto in una volta, in tutti i luoghi e in tutte occasioni, ne saremo angustiati, ma non possiamo negare che tutto si tiene nel nostro mondo, come tutto si tiene nel loro mondo criminale.