Effetto inversoLa crisi afghana è il primo fallimento della politica estera di Biden per la classe media

Secondo la strategia del presidente e dei suoi consiglieri, gli Stati Uniti devono abbandonare missioni impopolari come quella in Afghanistan e concentrarsi su dossier che gli americani comuni comprendano e soprattutto sentano vicini al proprio interesse personale. Questa scelta, però, si sta rivelando controproducente anche in termini di consenso

(AP Photo/Evan Vucci)

La caduta di Kabul è un grave disastro. È un grave disastro per il popolo afghano, ma anche per la credibilità dell’Occidente, le cui promesse di difendere la sicurezza degli alleati minacciati da concorrenti autoritari come Russia e Cina suoneranno ora ancora più vuote, come scrive Yascha Mounk in un articolo pubblicato dall’Atlantic.

«È un grave disastro anche per gli Stati Uniti, che saranno molto meno sicuri ora che i talebani hanno liberato un numero significativo di agenti di al Qaeda», spiega ancora il periodico americano.

«A Washington, negli ultimi anni, hanno abbracciato l’idea di una “politica estera per la classe media”», spiega ancora l’Atlantic. Perché? Per ottenere un maggiore sostegno al ruolo dell’America come garante dell’ordine internazionale liberale e per impedire a populisti autoritari come Donald Trump di vincere le elezioni. Di conseguenza, il Paese avrebbe dovuto abbandonare missioni impopolari come quella in Afghanistan e concentrarsi su azioni che potessero avere un effetto diretto positivo sui portafogli degli americani comuni.

L’Afghanistan però ha dimostrato il contrario. Il ritiro delle truppe ha pericolosamente rafforzato l’impressione che le élite del Paese fossero troppo deboli e incompetenti perché potesse essere affidato loro tutto il potere. E l’effetto che la crisi afghana sta avendo all’interno dei confini statunitensi indebolisce le scelte di Joe Biden e la teoria che sta al centro della politica estera del presidente americano.

Guardando a Trump, per esempio, si capisce come l’incoerenza possa essere un’arma a doppio taglio, sia per il consenso interno sia per la corsa a una leadership mondiale. «Durante la campagna del 2016, Trump ha più volte denunciato Xi Jinping e messo in guardia incessantemente sul pericolo rappresentato dalla Cina. Poi ha incontrato Xi ed è stato improvvisamente elogiativo nei suoi confronti», scrive l’Atlantic.

Sarebbe un errore lasciare che la volubilità personale di Trump oscuri la coerenza che caratterizza invece le sue convinzioni di base sul mondo. In generale, le sue opinioni sulla politica estera sono, come quelle di molti altri populisti in tutto il mondo, guidate da tre semplici principi.

Primo: Trump crede che i leader politici debbano sempre anteporre l’interesse particolare immediato del loro Paese a qualsiasi altra considerazione. In secondo luogo, crede che l’interesse nazionale dell’America sia raramente servito da impegni costosi o lunghi in Paesi stranieri. E, terzo, crede che il perseguimento di quell’interesse particolare richieda agli Stati Uniti di infrangere spesso sia le regole formali sia quelle informali della politica internazionale.

Questa prospettiva di base era pienamente visibile nell’atteggiamento di Trump nei confronti dell’Afghanistan. Durante la sua prima campagna elettorale, ha spesso criticato la missione. Lo sforzo alleato lì, sosteneva Trump, stava esigendo un prezzo troppo alto all’America, in termini di vite umane e di impegno per il Tesoro. Ma sebbene avesse messo in moto alcuni degli ingranaggi per il ritiro dell’America dall’Afghanistan, per tutto il suo mandato un piccolo contingente di truppe americane è rimasto al suo posto nel Paese dell’Asia centrale.

Come è stata valutata questa mossa? Il successo di Trump per un momento è riuscito a far credere che i vecchi metodi fossero in effetti diventati insostenibili: l’America aveva bisogno di un cambiamento sotto il profilo dell’impegno estero. In altre parole, con Trump si è dato inizio alla chiusura dell’ombrello militare statunitense che per decenni ha garantito la sicurezza di molti Paesi occidentali.

Così, molti dei tecnici che gestiscono la politica estera dell’Amministrazione Biden, tra cui il segretario di Stato Antony Blinken e il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan, hanno scelto la nuova via: «Gli elettori, hanno pensato, sono convinti che la politica estera americana non sia stata al servizio dell’interesse nazionale del Paese. Per competere con Trump, hanno concluso, i Democratici devono abbandonare gli impopolari coinvolgimenti stranieri e riformulare l’impegno del Paese verso le regole internazionali come un modo efficace per servire gli interessi finanziari degli elettori», si legge nell’articolo dell’Atlantic.

L’idea è quella di una “politica estera per la classe media”, che, sì, ha guidato i primi successi internazionali dell’Amministrazione Biden (ad esempio con la serie di accordi che garantiranno un’aliquota minima di tassazione per le grandi società internazionali), ma che porta con sé dei cambiamenti non sempre popolari.

«Nei sondaggi, una netta maggioranza degli americani si è costantemente dichiarata favorevole al ritiro delle truppe dall’Afghanistan. La presenza degli Stati Uniti nel Paese non ha portato alcun interesse economico significativo. Quindi, dal punto di vista di una “politica estera per la classe media”, l’Afghanistan era un caso facile. Ritirando le truppe, Biden poteva dimostrare all’opinione pubblica la sua nuova linea in politica estera, che prevede il non interessamento in costose avventure in Paesi stranieri e un riorientamento degli sforzi dell’America su iniziative che offrano benefici tangibili agli americani comuni. Sembrava una vittoria per tutti», scrive Mounk.

Ma il precipitoso ritiro dall’Afghanistan non solo sta avendo una serie di tragiche conseguenze per quel Paese e per il mondo, ma non aiuta i disegni dell’Amministrazione Biden per quanto riguarda la politica estera. Le immagini degli elicotteri che salvano i diplomatici americani dall’ambasciata di Kabul e degli afghani aggrappati all’esterno degli aerei da trasporto statunitensi nel disperato tentativo di sfuggire ai talebani rischiano di diventare iconiche. Simboleggiando una nuova era di debolezza americana e aiutando il populismo di Trump nella sua rinascita.

Infatti, benché la maggior parte degli americani sostenesse effettivamente il ritorno a casa delle truppe, è probabile che i cittadini giudichino ora severamente Biden per le scene di umiliazione nazionale che stanno andando in onda in televisione e si diffondono sui social media. E queste critiche potrebbero diventare ancora più potenti se nei prossimi anni si verificassero nuovi attacchi del terrorismo “straniero” sul suolo degli Stati Uniti (secondo i primi rapporti, i talebani hanno già liberato un numero significativo di agenti di al Qaeda e il gruppo potrebbe nuovamente consentire alle cellule terroristiche di stabilire campi di addestramento o di rifugiarsi nel Paese che ora controlla).

Il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan, infine, aveva lo scopo di segnalare che l’Amministrazione Biden aveva ascoltato attentamente le preoccupazioni degli elettori e aveva messo al primo posto il loro benessere materiale. Ma ora, al contrario, sta alimentando direttamente la percezione del fallimento e della debolezza dell’élite, su cui prosperano gli uomini forti populisti.

Ma la caduta di Kabul mostra anche un secondo difetto dell’idea di Biden. «Nei sondaggi gli elettori americani potrebbero dire di preferire che il loro Paese persegua una politica estera egoistica, che si concentri sul miglioramento del loro tenore di vita. Ma è ancora probabile che giudichino severamente i leader qualora le loro azioni umilino il Paese in modo drammatico o non riescano a proteggere la patria. E si dà il caso che ciò che è necessario per evitare l’umiliazione nazionale e preservare la sicurezza nazionale sia ciò che in circa venti anni si è consumato sul territorio afghano», conclude l’Atlantic.

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