«E fai il candidato, poi fai l’esodato, qualche volta fai il ladro poi fai il derubato. E fai opposizione, e fai il duro e puro, e fai il figlio d’arte, la blogger di moda. Perché lo fai, perché non te ne vai? una vita in vacanza, una vecchia che balla, niente nuovo che avanza». Era un Sanremo di pochi anni fa, la canzone era piuttosto moschicida, e tuttavia non si riusciva a non chiedersi cosa si stesse canticchiando: perché quel gruppo di bolognesi invocava una vita in vacanza e «nessuno che dice: se sbagli sei fuori» come fosse un’utopia e non la realtà italiana?
L’altro giorno ho cercato di comprare un coltello in un negozio di casalinghi rimasto aperto. Non ce l’avevano. Devono riaprire i magazzini, devono ricevere gli ordini, devono rientrare a regime con le consegne: il mio coltello arriverà a ottobre. Si vede che Amazon si serve da negozi di qualche paese che ad agosto non sospende tutto. Venderanno coltelli tedeschi.
Ho un’amica giornalista. Non so niente del settore che segue; quindi, quando in quell’àmbito succede qualcosa di clamoroso, le telefono: ma lei non sa mai di cosa stia parlando, perché una volta è al mare, una volta è in montagna, sempre è in vacanza. Le tre settimane di ferie del dipendente italiano, tra i sabati e le domeniche che non contano, i recuperi dei sesti giorni, la rava, la fava, quelle tre settimane lì sembrano tre mesi.
L’italiano col posto fisso, beato lui, è noi da piccoli, o Suni Agnelli quando vestiva alla marinara: parte per il mare subito dopo le pagelle, e se ne riparla a settembre, che ti serva un coltello o una dichiarazione di guerra.
Ma è facile prendersela con Di Maio che, mentre in Afghanistan succede la qualunque, annuncia una conferenza stampa per una settimana dopo, mentre lo paparazzano in braghette coi piedi a mollo. Basta con questi cliché, la sacralità del Ferragosto non è solo cinquestelliana (Rocco Casalino potrebbe vincere il Nobel e di lui si ricorderebbe sempre innanzitutto quel messaggio vocale in cui lamentava che il crollo del ponte di Genova gli avesse rovinato la vacanza), né solo italiana.
Jen Psaki è del Connecticut, si suppone sia dedita al lavoro – non diventi l’addetta stampa del presidente degli Stati Uniti, se non lo sei – eppure, mentre succede quel che succede, giornalisti americani che le inviano richieste di chiarimenti ricevono una risposta automatica di quelle che impostiamo noialtri che al massimo abbiamo la responsabilità d’un gatto e d’una piantina di basilico: «Sarò fuori ufficio dal 15 al 22 agosto». (Chissà se è nello stesso stabilimento balneare del nostro ministro degli Esteri).
Anni fa intervistai Arianna Huffington, che aveva scritto un libro sull’importanza di fare il pisolino in ufficio. Quando l’intervista era già stata fatta ma non ancora pubblicata, in Francia passò una legge che tutelava l’irreperibilità in orario non di lavoro (quindi c’è gente che spegne il telefono per legge). Scrissi alla sua segretaria per sapere se poteva farmi avere un commento su questa novità.
La segretaria era in vacanza, e la risposta automatica che mi arrivò diceva che non solo non avrebbe letto le mail mentre era in spiaggia (ma non muoiono di curiosità? Come fanno? È lo yoga?), ma che tutte le mail ricevute mentre non era al lavoro sarebbero state distrutte senza che lei le vedesse. Questa gente ha una determinazione a non lavorare evidentemente superiore all’umana curiosità: io non sono ancora riuscita a distruggere le lettere di quello per cui avevo una cotta in terza media, figuriamoci le mail che ricevo nei momenti inopportuni.
La questione che differenzia però Jen e Luigi dalla segretaria di Arianna è che nessuno si aspetta l’inquisizione spagnola, la legge francese, l’imprevisto maramaldo, ma quasi tutti si aspettavano il disastro in Afghanistan. Magari non gli influencer che hanno scoperto l’altroieri i video dei comizi di Trump di un anno fa, quello in cui diceva che avrebbero abbandonato l’Afghanistan, e li postano convinti di svelare verità nascoste.
Ma chi per mestiere si occupa di politica estera sì, orsù. Forse Jen e Luigi, quando hanno programmato le vacanze, si erano scordati di segnare in agenda «settimane calde sul fronte afgano». O forse l’avevano segnato e poi, quando l’hanno visto, scordarelli come sono, hanno pensato fosse un appunto che aveva a che fare col meteo.
L’altro giorno qualcuno mi ha detto, col tono di chi constata una botta di culo pazzesca, che Francesca Mannocchi era l’unica giornalista italiana a Kabul. «Si vede che aveva il visto da prima», hanno aggiunto, col tono di chi è contento per l’altrui fortuna d’aver scelto di convertire i punti fragola in un visto invece che in una vaporella.
Ma forse si era organizzata per tempo, ho obiettato timidamente. Forse, se conosci quella zona, e la storia, e la politica, ti aspetti che appena gli americani se ne vanno la situazione precipiti, e ti organizzi per esserci, ho detto consapevole di venire guardata come la vecchia che non balla.
Mi hanno risposto sconsolati per il mio essere fuori dal mondo: ma è agosto. Ho pensato che avevano ragione: i talebani sono dei veri screanzati a non aspettare settembre. Si sa che a settembre si comprano i quaderni nuovi, le matite temperate, e solo allora si fanno i colpi di Stato, perdindirindina. Selvaggi senza alcun rispetto per le usanze occidentali. Loro lì che restaurano regimi teocratici, e noi che mangiamo il gelato.