La cena della mia vita adulta alla quale mi sono sentita più fallita è stata una cena alla quale era invitato anche Giacomo Papi. Era una cena in piedi, il che contribuiva alla certezza del fallimento: mi ero messa tacchi coi quali non sapevo più camminare, non come quand’ero giovane e tenace, e se avete mai provato a portare avanti conversazioni brillanti mentre vi fanno male i piedi sapete perfettamente come sia fatto il fallimento: a forma di «ma perché non ho messo in borsa dei cerotti?».
Quella sera erano quasi tutti ricchi e famosi. Quelli che non lo erano, erano però almeno direttori di giornali. Quelli che neanche i giornali, erano almeno autori di bestseller. Era uscito da poco Il censimento dei radical chic, che aveva trasformato Papi da uno di cui tutti parlano bene in uno che vende tanti libri. Lasciandomi lì sola, unica invenduta cui facevano pure male i piedi.
È un mistero misterioso che quella sera non ci fosse Milly Antartica Visconti, multimilionaria che «si era fatta una certa fama con la proposta di salvare Venezia facendo pagare l’ingresso ai turisti con i sandali, ma vietandolo a quelli che sotto i sandali portavano anche le calze».
In Happydemia, appena pubblicato da Feltrinelli, Milly è un’ottima cliente dell’idea del romanzo che non si capisce come mai non sia anche l’idea di questo periodo d’Italia confusa: una multinazionale che consegna a domicilio psicofarmaci. Giacché, come osserva saggiamente l’ideatore del giro d’affari, «Siamo sessanta milioni. Per evitare assembramenti o ne uccidiamo trenta oppure li facciamo dormire». (Happydemia è ambientato quando già da qualche anno la pandemia ricorre e la promessa d’un vaccino dopodomani è costante: è quindi probabile che sia solo questione di tempo prima che anche nella realtà arrivi la app dello Xanax).
Se fossi una che parla di libri, direi che Happydemia è assai debitore di Stefano Benni, e che ad avere avuto diciott’anni quando uscì Comici spaventati guerrieri poi non ti riprendi più e vuoi scrivere anche tu la tua operetta morale.
Siccome invece sono una che parla di sé, dirò solo che Happydemia contiene uno straziante momento «Maledizione, perché non ci ho pensato io», ed è quello in cui Milly, parlando dell’impossibilità di ritoccarsi la tintura durante le chiusure, si soprannomina «Ricrescita felice». Ho un sogno: che Happydemia cortesemente eviti di diventare bestseller e mi lasci appropriare della definizione senza che tutti s’accorgano del plagio.
Se fossi una che parla di satira, direi che come nelle prove più riuscite è scivolosissimo il confine tra cosa sia cronaca e cosa invenzione.
Il presidente (“previdente”, nel romanzo) che «siccome non rappresentava nessuno, riusciva a rappresentare tutti», e che era stato «scelto tra i cittadini di età compresa tra i quaranta e i sessant’anni mai multati per eccesso di velocità, quindi prudenti per natura».
L’ex ministro dell’interno che riceve le consegne di tranquillanti mentre sta a casa con la mamma, depresso, sconfitto, pieno d’interrogativi. «Dove sono finite le persone che mi amavano, mamma?» «Sono ancora tutte lì, solo che non ti amano più» «Perché, mamma? Prima mi sommergevano di cuoricini per qualsiasi scemenza».
La lotta di classe ridotta a «i poveri desideravano solo diventare ricchi, e invece il partito per rappresentarli aveva bisogno che rimanessero poveri in eterno».
La ragazza che consegna psicofarmaci, «Miss K, una ex influencer famosa perché portava sempre il velo che era caduta in disgrazia da quando le mascherine le portavano tutti».
Ma, soprattutto, i sip. Le secret important person che finalmente ci faranno smettere di citare Andy Warhol e il suo quarto d’ora di celebrità (forse pretendo troppo – la fine delle citazioni pigre – da quello che è solo un romanzo, mica acqua di Lourdes). «Il nonno gli aveva raccontato che una volta le persone erano disposte a tutto per diventare famose. Si esibivano in balletti idioti, pubblicavano foto con il culo di fuori o in bilico sui grattacieli. Ma da quando erano cominciate le epidemie e il controllo si era intensificato, rimanere anonimi era diventato un privilegio».
Ricordo tutto della più fallimentare cena della mia vita adulta, anche il vantaggio d’essere l’unica anonima, vantaggio che Tom Wolfe al posto mio non avrebbe sprecato, e io invece ero impegnata ad avere male ai piedi.
Ricordo anche la scena più fallimentare della serata, e non fu quella in cui un altro autore di bestseller (altro rispetto a Papi, mica rispetto a me: sono mitomane, ma non così tanto) interruppe una conversazione che stavo avendo con gran fatica – la fatica di non pensare ai miei piedi doloranti – e, scansandomi come mai avrebbe fatto con la servitù, chiese ai miei interlocutori le loro stime per le vendite della sua più recente opera d’ingegno.
Non fu neanche quella in cui il più lucido intellettuale italiano mi disse che la storia della letteratura non avrebbe ricordato Tom Wolfe (a quel punto mi accasciai su una panca, perché va bene tutto ma il mal di piedi e la lesa maestà posso sopportarli solo separatamente).
La scena madre del mio fallimento fu quella in cui dissi alla mia interlocutrice, a voce abbastanza alta da venire sentita da Papi che era a mezzo metro, che insomma, ero l’unica lì dentro a non vendere, adesso persino Papi fa i bestseller, chi sono io, la figlia della schifosa.
La mia interlocutrice mi guardò come un’istitutrice di Vestivamo alla marinara avrebbe guardato un’eventuale discendente Agnelli disadattata che fosse rimasta sveglia oltre l’orario consentito e stesse infastidendo gli adulti. Forse anche Papi mi guardò così (non ne sono sicura giacché ero impegnata a scrutare il pavimento chiedendomi se fosse adatto a stare scalza), fatto sta che poco dopo dissero in coro «Mannò, dai». Fu allora che decisi di togliermi le scarpe. Potendo, avrei anche ordinato degli psicofarmaci, ma era il mondo di prima: non ci eravamo ancora organizzati.